Venezia74 – Zama: recensione del film di Lucrecia Martel
Zama è un film senza grandi pretese storiche, che si inserisce in un contesto che pone la sua forza nella costruzione di un passato di per sé confuso, dispersivo.
Zama (di cui potete vedere qui il trailer) è un film diretto dalla regista argentina Lucrecia Martel e presentato fuori concorso alla 74ª Mostra del cinema di Venezia, è tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Di Benedetto, pubblicato nel 1956, che narra la storia dell’ufficiale Don Diego de Zama. Nel cast figurano Daniel Giménez Cacho, Lola Dueñas, Juan Minujín, Matheus Nachtergaele e Rafael Spregelburd.
Diego de Zama è un ufficiale della corona spagnola di fine Settecento. Abita in un paesino del Sud America, lontano dalla moglie e dai figli e vive sperando di essere promosso e ben presto di poter essere trasferito. L’attesa della sua promozione lo mette a dura prova, è irrequieto e inconsapevole che il suo destino sarà proprio quello di aspettare. Zama aspetta, aspetta le carte del suo trasferimento, aspetta di abbandonarsi alla follia, non diventerà folle mai davvero, aspetta di poter avere una donna accanto, ma non l’avrà. Continuerà a declamare le carte del suo rimpatrio, ottenendo null’altro che rinvii.
La narrazione di Zama è paralizzata proprio come il protagonista, si sgretola come un muro e procede verso il dissolvimento
La narrazione di Zama è imprigionata, volutamente, non ha picchi né cadute, è in paralisi come il protagonista, che è inglobato nel suo perenne stato di attesa. Il film perciò non si apre veramente, ma si sgretola come un muro in deperimento, e pezzo dopo pezzo la pellicola procede verso il suo dissolvimento. É una pellicola redatta in frammenti, piccoli detriti che non hanno ordine, non sono cronologici. Zama è intervallato da momenti di lucidità ed altri in cui sembra essere preda di illusioni, visioni, derisioni, miraggi e incubi. Il protagonista non dimostrerà mai di avere una personalità ramificata, non si innalza.
La cinepresa si sofferma su di lui, mostrandolo anche quando l’azione va oltre il suo volto; si sentono rumori e suoni extradiegetici, completamente dissonanti alla scena, come un lamento, una risata, che non trovano una forma reale. Tutto questo accompagna la narrazione verso l’irresolutezza e la demistificazione del personaggio, un uomo che resterà sempre vittima di sé stesso, incapace di rinsavire o lasciarsi davvero annegare nei suoi tormenti.
Zama è un film senza grandi pretese storiche, che si inserisce in un contesto che pone la sua forza nella costruzione di un passato di per sé confuso, dispersivo.
Quindi quando la regista Lucrecia Martel guarda indietro, lo fa circoscrivendo la storia alla vita di un ufficiale, nel suo modo di viversi e di distruggersi. Le immagini con il procedere della vicenda lentamente si frantumano, mostrando un varco atemporale in cui Zama vive i suoi giorni, preda di visioni.
Diego de Zama capirà che la sua attesa è illusoria, che i suoi sacrifici vani e la sua vita insignificante e involutiva, ma non farà nulla per sfuggirne. Zama passa la vita ad aspettare Godot. Proprio quando sembra perso, parte per una spedizione per scovare un noto bandito, la cui cattura avrebbe potuto realizzare il suo ritorno.
Camminerà attraverso campi, foreste e lunghi fiumi inerti, fino a trovarsi faccia a faccia con la morte. In quell’istante Zama realizza con amarezza che quel destino infausto avrebbe potuto evitarlo: le attese, il delirio, le ossessioni, le umiliazioni. Se solo qualcuno avesse avuto il coraggio di distruggere fin dal principio le sue speranze.