Venezia 74 – Caniba: recensione del film sulla vita di Issei Sagawa
La recensione del deludente film Caniba che racconta la vita del noto assassino Issei Sagawa, presentato al Festival di Venezia
Approda finalmente al Lido Caniba, il documentario di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, annunciato in pompa magna come uno dei due film shock del Festival (insieme al ben superiore Brawl in Cell Block 99), ma rivelatosi invece abbastanza innocuo e anonimo. La pellicola è incentrata sulla vita del criminale antropofago Issei Sagawa, che nel giugno del 1981, durante i suoi studi alla Sorbona di Parigi, venne arrestato mentre tentava di gettare in un lago i resti della sua compagna di corso Renée Hartevelt, da lui uccisa con un colpo di pistola, poi stuprata e infine parzialmente mangiata. L’uomo fu dichiarato incapace di intendere e di volere e rilasciato in Giappone, dove attualmente vive da uomo libero sfruttando la fama acquisita con il suo atroce crimine.
Caniba: il deludente racconto della vita dell’assassino e cannibale Issei Sagawa
Il materiale su cui lavorare con Caniba era decisamente scoppiettante: un’atroce e disumano crimine commesso, il paradosso della giustizia che rilascia a piede libero un pericolo pubblico, il perverso meccanismo della popolarità acquisita tramite la sua nefandezza e infine il rapporto morboso e inquietante con il fratello Jun, che nel documentario scopriamo essere da tutta la vita in cerca del dolore perfetto, inseguito tramite l’autoflagellazione con ogni sorta di oggetti appuntiti e affilati. Peccato che tutti questi spunti vengano vanificati dai registi Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel con delle autolesioniste scelte narrative e registiche, che rendono il racconto delle vite di Issei e Jun faticoso, inefficiente e a tratti sconfortante.
I registi affidano la parte più prettamente documentaristica ai titoli di testa, quantomai fondamentali per comprendere il contesto del film, per poi dedicarsi a un lento e macchinoso accompagnamento del protagonista, in pessime condizioni dopo un infarto e la comparsa del diabete, assistito nella vita di tutti i giorni dal fratello Jun. La narrazione è quindi affidata a lunghi, lenti e sfibranti monologhi, ulteriormente appesantiti da prolungati primissimi piani e da inquadrature sorprendentemente fuori fuoco, scelte probabilmente per creare un alone di mistero e inquietudine intorno alla figura di Sagawa, ma capaci soltanto di produrre un totale distacco fra la pellicola e il pubblico. Nessuna intervista, nessun punto di vista esterno, pochissime immagini di repertorio capaci di immergere lo spettatore nella storia. Solo il timido e a tratti persino indulgente racconto della vita quotidiana di Sagawa e del suo rapporto di morbosa rivalità con il fratello.
L’annunciato scandalo del Festival, che di scandaloso ha ben poco
I momenti capaci di scuotere uno spettatore minimamente navigato sono pochi, e tutti sfruttati nel peggiore dei modi. Il manga realizzato dallo stesso Issei Sagawa sull’atrocità da lui commessa viene presentato in maniera fredda e puerile, senza il necessario slancio narrativo necessario a mettere in luce la sua mente deviata, mentre le sequenze delle autopunizioni di Jun e dell’estratto di uno dei film porno interpretati da Issei (rigorosamente pixelato sulle parti basse dei protagonisti) appaiono come un goffo e fastidioso tentativo di creare ribrezzo e scandalo in un film in cui a trionfare è invece la noia.
Caniba si rivela come una delle più grosse delusioni di un’edizione del Festival che continua a sfornare giornalmente ottime pellicole in diversi generi. Una pellicola scialba, fragile e autoreferenziale, annunciata come uno dei casi della Mostra, ma dissoltasi velocemente come neve al sole. Un fiasco che di scandaloso ha solo le scelte narrative e la latente tentazione di fare passare come pulsioni comprensibili e in qualche modo legate alla natura stessa dell’uomo le ripugnanti infamie perpetrate da Issei Sagawa.