Venezia 74 – Hannah: recensione del film con Charlotte Rampling
Ciò che traspare in Hannah è un cinema vecchio e inappagante, che crea una barriera fra lo spettatore e le vicende della protagonista.
Il penultimo giorno della 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è quello dell’ultimo film italiano in concorso, ovvero Hannah di Andrea Pallaoro, totalmente incentrato sul carisma e sulle doti recitative di una monumentale interprete come Charlotte Rampling. Pallaoro torna così al Lido dopo il suo lungometraggio d’esordio Medeas, presentato nel 2013 nella sezione Orizzonti.
Hannah (Charlotte Rampling) è un’attempata signora, che vive da sola a seguito dell’arresto del marito per un orribile crimine. La donna si sta lentamente lasciando andare, vittima di un crollo psicologico ed emotivo dovuto alla solitudine e alla ricaduta delle azioni del marito sulle sue relazioni sociali. La telecamera accompagna malinconicamente le azioni della protagonista, che trascorre le sue giornate fra l’accudimento del suo cane, le pulizie per una ricca famiglia, il nuoto e le prove di recitazione con un gruppo teatrale.
Hannah: una formidabile Charlotte Rampling sprecata in una sterile e artificiosa messinscena dell’elaborazione del dolore
Con un’operazione simile a quanto già visto in Invisible di Pablo Giorgelli, anch’esso presentato qui al Lido, Andrea Pallaoro tenta la difficile operazione di mettere in scena l’isolamento, la desolazione interiore e il dolore dovuto al progressivo sgretolamento della vita sociale della protagonista. Nonostante la solita formidabile prova di Charlotte Rampling, di diritto fra le pretendenti per la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, Hannah si rivela un’opera ostica e spossante anche per gli spettatori più navigati, a causa di una messinscena fredda, statica e dai tempi eccessivamente dilatati, che alla lunga creano un totale distacco fra ciò che avviene su schermo e chi lo guarda.
La macchina da presa segue discretamente e con approccio minimalista la triste esistenza di Hannah, servendosi di lunghi piani sequenza e dell’espressività della Rampling per dipingere il lento inabissamento e l’inesorabile estraniazione della protagonista, vittima dei propri demoni interiori e di un insopprimibile disagio di vivere. Salvo poche eccezioni, come la scena della balena in decomposizione osservata da Hannah, ovvia ma efficace metafora della sua condizione interiore, il film non riesce mai a immergere lo spettatore nel travaglio esistenziale della protagonista o a rendere percepibile il suo lungo e silenzioso disfacimento.
Hannah: un cinema vecchio e inappagante, che crea una barriera fra lo spettatore e le vicende della protagonista
Fra le pieghe dei piccoli e grandi avvenimenti vissuti dalla protagonista, come i litigi con il figlio, gli impacciati giochi con il cane, o gli esercizi vocali delle fase iniziali della pellicola, scorgiamo un approccio compiaciuto e consapevole, che, nell’ardito tentativo di mostrare l’avanzante disgregazione fra corpo e mente della protagonista e il progressivo distaccamento dalla sua esistenza, finisce per creare una barriera fra film e spettatore, composta da pesantezza camuffata da autorialità e da mancanza di spessore narrativo travestito da essenzialità.
Un cinema vecchio e inappagante, che con il suo insistito immobilismo e la sua voluta rinuncia alla narrazione e alla parola diventa un malinconico e sconsolato quadro, che mostra il dolore e la solitudine in tutte le forme allo spettatore, ma non gliela fa mai percepire. Ciò che alla fine rimane è solo l’ennesima profonda e immersiva interpretazione di Charlotte Rampling e una fotografia che nei suoi toni algidi e asettici riesce a delineare lo stato d’animo della protagonista.
In definitiva, Hannah di Andrea Pallaoro si rivela un prodotto lezioso e impenetrabile, che in un momento in cui il cinema italiano sembra finalmente essere riuscito a varcare la porta del tinello e ad affacciarsi in modo fresco, brioso e originale al mercato internazionale scivola in una sterile e artificiosa messinscena dell’elaborazione del dolore, destinata a finire ben presto nel dimenticatoio.