Cannes 2015 – Chronic: recensione
Chronic, film in Selezione Ufficiale a Cannes 2015, del messicano Michel Franco, lascia purtroppo perplessi. Inquadrature lunghe, perlopiù fisse, completa assenza della colonna sonora, dialoghi ridotti all’osso come i corpi dei pazienti dei quali David (Tim Roth) si prende cura, tutto sembra voler agganciare la completa attenzione dello spettatore per guidarlo verso un epilogo eloquente, in cui le tante scene fatte di puro indugio sulla quotidianità del protagonista possano trovare lo spazio per palesare la ragion profonda del loro essere. Peccato che questo non accada e che, con un “colpo di scena” finale che più telefonato non si può, il regista abbia deciso di uscire bruscamente dal labirinto di sentimenti ed azioni circolari nel quale si era andato ad invischiare, lasciando insoddisfatti e pure un po’ arrabbiati per aver creduto di essere di fronte ad un’opera di ben altra taratura.
David è un infermiere specializzato nell’assistenza di malati terminali. Privo di qualunque forma di vita privata e apparentemente anaffettivo verso il resto del mondo, riserva il proprio meglio ai pazienti, accompagnandoli attraverso i loro ultimi giorni con un perfetto mix di professionalità ed empatia, intuendone e realizzandone bisogni e desideri. Alla morte dei suoi assistiti, un incolmabile ed indecifrabile senso di vuoto lo spinge a trovare in fretta un altro ingaggio, in una routine fatta di lavoro, faticosi tentativi di evasione, corsa e solitudine. Man mano che le scarse relazioni personali vengono a galla, scopriamo che David ha un passato che lo ha devastato e ha bisogno dei pazienti almeno quanto loro hanno bisogno di lui, in una spirale di dipendenza reciproca che lo spinge nelle braccia di problematiche legali, dovute principalmente all’inadeguatezza di tanta dedizione nell’occuparsi di sconosciuti.
Michel Franco orchestra una pellicola cupa e distante ma carica di promesse. Peccato che si fatichi a capire quale sia il tema di questo film: la morte? La vita? Avere il privilegio di poter scegliere come morire? Un finale inappropriato gioca poco onestamente con la fiducia dello spettatore, che dopo tanta costruzione intorno alla storia del protagonista rischia di mettere in dubbio la propria sana capacità di giudizio credendo di non aver colto un messaggio troppo complesso per le proprie doti.
Più verosimilmente, invece, Franco, come in questa stessa edizione del Festival Gus Van Sant, è caduto nell’insidia del nonsense, tirando per le orecchie la pellicola senza riuscire ad aprire un canale efficace (tra i tanti possibili) per renderla apprezzabile nella sua compiutezza. La sorte del prodotto resta tutta nella mani del gigante Tim Roth che, pur senza grandi mezzi a disposizione, riesce a salvare questo lavoro dalla denigrante etichetta di film inutile.