RomaFF12 – Saturday Church: recensione
L’anno scorso, sia agli Oscar che alla Festa del Cinema di Roma, è stato il trionfo di Moonlight. Film d’apertura della passata edizione della capitale, l’opera di Barry Jenkins ebbe nota risonanza soprattutto dopo l’increscioso scandalo accaduto nella serata degli Academy riguardante l’ancora misterioso scambio di buste durante la consegna delle tanto bramate statuette. Premio Oscar al Miglior Film per molti rubato al meritevole e splendido musical contemporaneo La La Land, vero esempio di maestria cinematografica che legava insieme con armonia il mondo della musica e della danza a quello del cinema.
Ad unire dunque queste due divergenti – e per diverso periodo nemiche – pellicole, legandole insieme nel più improbabile delle manovre, ci ha pensato il film musicale tra dramma di identità, dettami della religione e ricerca della propria libertà, Saturday Church, opera presentata sia nella selezione ufficiale della Festa sia nella sezione di Alice nella città e diretta dal regista Damon Cardasis.
Saturday Church: un musical tra dramma identitario, libertà e religione
Ulysses (Luka Kain) sa perfettamente chi vuole essere, pur avendo soltanto quattordici anni. Il timido adolescente, bullizzato nei corridoi della scuola e appena afflitto da una grave perdita, vuole abbandonare i suoi vestiti maschili per indossare calze e tacchi a spillo, per esprimere con ogni mezzo e a suo modo ciò che ha dentro, per rappresentare sé stesso nella sua vera forma. Desiderio che va però contrastando con la disapprovazione della madre Amara (Margot Bingham) e dell’infervorata fede dell’autoritaria zia Rose (Regina Taylor), che sempre più lo allontaneranno dalla sua casa per spingerlo nella solitudine della strada giungendo fino agli incontri del sabato sera in una chiesa della propria città.
In Saturday Church c’è davvero tutto: il disagio del non poter esprimere sé stessi, il conflitto familiare, il primo elettrizzante amore.
Il regista nonché sceneggiatore Damon Cardasis decide però di aumentare la dose di drammaticità, trattando la spiacevole verità della prostituzione. Ma non si ferma qui l’inventiva creativa dell’autore, la quale si riversa sul già ricolmo insieme di fattori che vanno a comporre il film aggiungendo l’elemento elettro-pop della colonna sonora scontata e coreografata, a rendere l’opera un prodotto giovanile dalle atmosfere musicali. Ma tra intenzione e riuscita la strada della realizzazione è lunga e tortuosa e non sempre conduce a risultati sperati, ribaltando completamente la volontà del film rendendolo discutibile e vano.
Portando il protagonista un nome tanto imponente e impegnativo, da Saturday Church ci si aspettava un viaggio non della comprensione, più che altro dell’affermazione da parte delle persone intorno riguardo al poter esprimere sé stessi e la figura che si vuole orgogliosamente mostrare senza dover subire ripercussioni, mentre si ricava invece una scusante per far parlare del prodotto nato dalla commistione di musical e tema sociale, per nulla all’altezza delle aspettative. Il film infatti fa pecca di banalità, buttate nel marasma di tormenti per strappare e di conseguenza stabilire un maggior stato di pietismo, quando soltanto togliendo componenti la pellicola avrebbe veramente potuto sopravvivere tramite il suo soggetto e la sua musica.
Musica che dopotutto si mostra anch’essa elemento in più in un’opera che a differenza del proprio protagonista sembra non saper delineare un’individualità chiara e convincente, un film che vuole rivolgersi ai giovani, ma che difficilmente potrebbe avere presa su di un pubblico di tal genere. Saturday Church è dunque insieme il racconto e l’esperimento di cui non si aveva bisogno, un dramma trito e ritrito di luoghi comuni che si perdono proprio nel loro ricercare originalità.