My Name is Emily: recensione del film con Evanna Lynch
My Name is Emily, il film d'esordio di Simon Fitzmaurice che si snoda tra peregrinazioni filosofiche e viaggi in macchina attraverso l'Irlanda
Al primo anno di magistrale, o forse al secondo, per un corso di Storia Contemporanea sono finita a leggere La Strada di Jack Kerouac, che è uno di quei libri che un po’ tutti dicono di aver letto e che forse la maggior parte ha persino letto davvero. A me però non era mai interessato, vuoi perché non ho mai subito il fascino dell’America, né tantomeno dei viaggioni in macchina, perciò mi sono detta “ora o mai più” e mi sono accollata l’onere. Purtroppo, l’aneddoto finisce senza colpi di scena: il libro mi è sembrato tiepido e di poca sostanza e le mie perplessità sul genere sono ancora lì che mi affliggono.
La stessa cosa non la si può dire per il cinema, dove il road movie trova sempre i suoi ammiratori. Da La Strada (1954) al più recente Baby Driver (2017) il viaggio in macchina viene narrato, sezionato, e indagato in se stesso o come metafora di un percorso interiore di crescita o riscoperta. È questo quello che succede anche in My Name is Emily, film d’esordio del regista irlandese Simon Fitzmaurice, dove alle numerose riflessioni sul valore della vita e sulla soggettività di ogni esperienza si affianca il viaggio in macchina di due ragazzi per raggiungere il padre di lei, chiuso da anni in un istituto per malattie mentali.
Dopo aver perso la madre in tenera età, Emily (Evanna Lynch) ha continuato a vivere con il padre (Michael Smiley) eccentrico scrittore autore di un bestseller dal bizzarro titolo “Swimming & Sex” in cui si incoraggia ad abbracciare la vita e le proprie pulsioni naturali, quella sessuale su tutte. E sono questi, infatti, i temi di fondo che caratterizzano il film di Fitzmaurice dove l’acqua è spesso protagonista di molte scene, un’acqua che accoglie i personaggi e li culla mentre si abbandonano a riflessione profonde o che si presta a strumento di morte quando si cede al pensiero di togliersi la vita. La stessa acqua che ricorre nel corto The Sound of People, in cui quei temi cari al regista che si ritroveranno nella sua opera prima sono già ben riconoscibili. Un’acqua che, qui come in My Name is Emily, si fa talvolta liquido amniotico mentre le voci narranti si interrogano sul valore della vita e sul significato della morte. Dove tutti quei momenti che, come scene di un film, costituiscono la nostra vita vedranno la loro fine col sopraggiungere della morte e il pensiero che il mondo andrà avanti anche senza di noi si fa spinta per abbracciare il presente.
My Name is Emily è un film a cavallo tra la vita e la morte, tra il presente e il passato, in cui i ricordi dolorosi non vengono rifuggiti ma si fanno punto di partenza per una crescita emotiva
L’eccentricità del padre, unita al dolore per la perdita della madre, sfocia presto in lucida pazzia finché questi non viene internato in un istituto per malattie mentali. Tuttavia, il rapporto con la figlia non si interrompe e i due si scambiano numerose lettere. Se il passare del tempo influirà sulla frequenza delle missive, il compleanno di Emily rimane un punto fisso sul calendario in cui ricevere gli auguri del padre, tradizione che però si interrompe il giorno del suo sedicesimo compleanno. Sarà quindi questo il motore dell’azione, motore che spingerà Emily, ragazzina estremamente riservata e amante della lettura, a partire insieme al compagno di classe Arden (George Webster) alla volta dell’istituto per scoprire che cosa ne sia stato del padre.
Con questo pretesto il film si trasforma in un vero e proprio road movie scandito da fin troppe canzoni che più che servire da accompagnamento finiscono per offrire una parafrasi emotiva piuttosto superflua e insistente. A questo si aggiungono dialoghi che vorrebbero disperatamente risultare brillanti o che, quantomeno, vorrebbero dare l’impressione di essere sorretti da una qualche profondità ma che, invece, risultano banali se non, a tratti, irritanti. Allo stesso tempo, la verbosità del film si rende manifesta con la voce fuori campo di Emily che, instancabile, ci regala slogan motivazionali e frasi che potrebbero campeggiare sulla Smemoranda di un liceale qualsiasi.
My Name is Emily è un film che affonda spasmodicamente in una ricercatezza culturale che sa di superficiale ma di cui si apprezza di certo la buona volontà
Quello che più si apprezza di My Name is Emily è il montaggio con le sue scene che interrompono il continuum narrativo per aggiungere dettagli o ricordi a creare quindi quel ritmo sincopato che già era evidente nel corto The Sound of People. Tutto sommato, il film risulta un prodotto godibile anche se forse un po’ scontato. Un prodotto che indaga e rappresenta abbastanza bene le pulsioni adolescenziali, la cui troppa verbosità finisce però per rimanere indigesta.