Babadook: il significato della fiaba horror di Jennifer Kent
Il male è un essere vivente da preservare e lasciare in eredità in Babadook, la favola horror di Jennifer Kent
La paura dell’uomo nero, la nascita, il lutto mai accettato, la patologia mentale e il senso claustrofobico che tutti questi elementi rievocano nell’anima e alla vista. Un cocktail di sensazioni, interrogativi e rimodulazioni del male che in Babadook, il film scritto e diretto da Jennifer Kent, sommergono lo spettatore che si trova invischiato tra le beghe di una ragnatela che, se da una parte mette a punto un terrore banale, dall’altra pone interrogativi pesanti come macigni, con punti di domanda che si conficcano nella carne viva dell’inconscio conducendo adagio la frammentazione dell’essere.
Così, se da una parte Babadook può non terrorizzare chi cerca nel cinema di genere solo ed esclusivamente immagini truculente e fiumi di sangue, certo sa ammaliare chi ha la facoltà di carpire che l’orrore è soprattutto una questione psicologica, un’imposizione che deriva innanzitutto da dentro di noi e non da fuori. Nessun assassino sa essere spietato quanto la nostra mente poiché, mentre nel primo caso la paura va in frantumi in seguito all’eliminazione fisica di chi l’ha provocata, nel secondo caso occorre imparare ad addomesticarla.
Il significato di Babadook ruota, non a caso, attorno a questo concetto di domesticazione del male che, al pari di un animale, va educato in modo da apparire agli occhi esterni innocuo e parte integrante della casa o della vita umana in genere.
Babadook: il significato del film poggia le basi sul controllo del male
Nella sua rappresentazione cinematografica la Kent sa dosare efficacemente i cliché e farci raggiungere gradualmente il picco del turbamento; lo fa introducendoci dapprima nella vita di Amelia (Essie Davis) e nel suo dolore. La protagonista è infatti una donna sola, rimasta vedova a causa di un incidente che le ha portato via il marito proprio nel giorno in cui è venuto alla luce il piccolo Samuel (Noah Wiseman) costringendola così, inevitabilmente, a configurare l’eccessivo dolore col volto di un figlio che già a soli sei anni si ritrova intrappolato in un labirinto di colpevolezza e timore di rimanere solo, il tutto sovraccaricato da un quadro psicologico poco stabile fatto di crisi isteriche e mostri che non fanno altro che tenere lo spettatore il bilico tra la realtà e l’immaginazione.
Si stenta sempre a capire chi sia questo fantomatico Babadook, se la sua essenza possa travalicare lo sguardo di Samuel. Ci si chiede se è uno di quei mostri che si palesano solo ai bambini almeno finché non appare chiaro anche ad Amelia che ci sia qualcosa che non va, eppure si rischia sempre di setacciare ogni vicenda con il viscido occhio della malattia mentale poiché la protagonista è profondamente depressa e suo figlio appare tutt’altro che normale. Su questo non ci piove, così come non ci sono dubbi sul fatto che la messinscena psicologica è un supporto vitale per esasperare la paura.
Una paura che si avviluppa attorno alle sensazioni dei personaggi, usandole a proprio piacimento per dare forma fisica al mostro. La stessa paura che viene materializzata ed estrapolata per poi essere finalmente ingabbiata e guardata in faccia, conservata nel sottoscala per non essere esaminata da occhi indiscreti e allo stesso tempo per essere a portata di mano.
Il film si giostra su un gioco di vuoti e pieni che non riescono a trovare il perfetto equilibrio per permettere ad Amelia e Samuel di vivere una vita normale: né felice né triste, semplicemente normale. Amelia tende perennemente a sottolineare le sue mancanze di donna, sottolineando con il suo modus operandi quanto baratterebbe volentieri il figlio col marito defunto. La mancanza fisica di un uomo che le sappia stare accanto, un uomo col quale baciarsi, fare l’amore, confrontarsi, le proibisce di sentirsi madre e di adempiere ai suoi compiti, ma le vieta anche di guardare avanti e provare a rifarsi una vita o a ritagliarsi un attimo di felicità. I suo volto è incessantemente triste e teso.
Samuel, invece, si trova a scontrarsi con una mancanza che non riesce a percepire fino in fondo ma che certo crea nella sua duttile personalità dei solchi profondi che trapelano in eccessivi legami e credenze.
Una richiesta esagerata d’affetto che va a collidere con una volontà materna di allontanamento. Amelia tende a chiudersi in se stessa e, se ancora si prende cura del figlio, è solo per una volontà superiore e lucida che riesce a stento a forzare il suo inconscio, la parte oscura e horror dell’essere umano che Jennifer Kent riporta sullo schermo nelle fattezze di Babadook.
Non a caso, nel momento in cui la protagonista riesce ad affrontare le sue paure e a gridare in faccia al mostro difendendo con le unghie e con i denti il suo bambino, l’essere si indebolisce e si lascia imprigionare. Da quel momento in poi è come se Amelia avesse estratto un tumore da dentro di se per metterlo in bella vista in una boccetta di vetro, a distanza di sicurezza ma forzatamente nel suo raggio d’azione. Dopo questa mossa il mostro non è sparito, semplicemente è stato identificato e adesso è come un animale in gabbia da accudire, nutrire e lasciare in eredità.
Il senso più profondo di Babadook è questo e, se qualcuno di voi si sta chiedendo se questa è una storia vera, possiamo ampiamente rispondere di si; certamente non perché esistono i mostri nelle fattezze rappresentate dalla settimana arte, bensì perché esistono le nostre paure e se non le affrontiamo esse diventano insormontabili esseri che si muovono dentro di noi e, nel momento in cui non riusciamo ad ingabbiarli e istruirli, sono capaci di fagocitare interamente la nostra anima trasformandoci interamente nel mostro che tanto temevamo.