Non solo The Post: I 10 migliori film d’inchiesta di sempre

Con l'uscita al cinema di The Post di Steven Spielberg scopriamo insieme i 10 migliori film d'inchiesta di sempre. Storie vere trasportate con verve e coraggio sul grande schermo e non solo giornalismo d'inchiesta ma veri e proprio scandali globali

Ora che The Post è in arrivo nelle nostre sale, ed è indicato da molti come uno dei migliori film degli ultimi anni (già candidato all’Oscar come Miglior Film), noi di Cinematographe.it abbiamo deciso di creare una lista, un elenco dei 10 migliori film d’inchiesta mai fatti. Si tratta di 10 film che sono rimasti scolpiti non solo nella memoria del pubblico, ma che hanno sovente segnato un punto di svolta nella storia del cinema, riaperto quesiti e approfondito tematiche inerenti il rapporto tra stampa e pubblico, tra potere politico e moralità, tra la necessità di arrivare alla verità ed il modo in cui essa viene sovente percepita.

Fair Game – Caccia alla spia

Diretto da Doug Liman nel 2010, Fair Game ha portato sullo schermo e reso molto più noto al mondo uno dei peggiori scandali politici e giudiziari avvenuti durante i due mandati presidenziali di George W. Bush, noto in Italia come il CIA-gate. Nel 2002-2003, fino a poco prima dello scatenarsi della Guerra in Iraq, l’agente sotto copertura della CIA Valerie Wilson (interpretata da Naomi Watts) lavorava ad un’indagine mirante individuare la presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq. Il suo ruolo venne rivelato alla stampa da una non ben precisata fonte, che il marito di Valerie Joseph Wilson (interpretato da un grande Sean Penn) si disse sicuro trattarsi di qualcuno all’interno della Casa Bianca. Il tutto sarebbe avvenuto, secondo Wilson, per vendetta nei suoi confronti, a causa di alcune feroci critiche mosse da lui contro l’amministrazione Bush, in un editoriale apparso sul New York Times il 6 luglio 2003.

Ma perché Wilson era tanto importante e allo stesso tempo scomodo per la Casa Bianca? Wilson non era semplicemente il marito Valerie, ma uno dei diplomatici americani più autorevoli e rispettati, ed era stato interpellato in quanto ex ambasciatore nel Gabon e in generale uno dei più esperti dello scacchiere geopolitico africano, dal momento che si temeva che Saddam Hussein stesse cercando di fabbricare una bomba atomica con uranio di provenienza africana. Le prove raccolte da Wilson dimostravano senza ombra di dubbio che in nessun modo era avvenuto uno scambio di uranio o materiale radioattivo tra Niger e Iraq. Tuttavia l’operazione Iraqui Freedom viene comunque scatenata, ma quando il 28 gennaio 2003, il Presidente Bush annuncia durante il suo Discorso sullo Stato dell’Unione, che CIA e M16 avevano prove inconfutabili della presenza di armi nucleari in Iraq, Wilson capì che il suo rapporto, come quello di altri operativi, era stato o insabbiato o modificato in toto.

Il suo editoriale ebbe un enorme impatto e provocò un’immediata rappresaglia dalla Casa Bianca, in particolare (a quanto emerso nelle indagini) da parte del Capo dello Staff del Vice Presidente Cheney, Lewis Libby (David Andrews nel film), dal Portavoce della Casa Bianca Ari Fleischer (Geoffrey Cantor) e dal Vice Capo dello Staff Karl Rove (Adam LeFevre). Costoro fecero in modo che trapelasse la reale posizione lavorativa della moglie, agente CIA, distruggendone non solo la carriera, ma vanificando delle importanti missioni che stava dirigendo in Iraq. Da quel momento entrambi cercheranno di difendere la loro reputazione e le loro idee, venendo perseguitati in ogni modo da un potere politico spietato, arrogante e corrotto.

Film dalla perfetta regia e dal livello recitativo altissimo, ha nella coppia Penn-Watts una macchina perfetta, con il primo accorato, idealista e senza remore, mentre la Watts porta sullo schermo un personaggio costretto dal suo mestiere ad essere accorto, sospettoso e cinico. Fair Game è un film duro, che urta i sentimenti e il senso di giustizia ed equità di chi lo guarda, e fa comprendere (se mai ce ne fosse bisogno) quale tomba della verità e della libertà fu il doppio mandato di un George Bush Jr., che ancora oggi ha responsabilità storiche di una gravità impressionante sia sul fronte internazionale che su quello interno. Da vedere per non dimenticare quanto la stampa americana e britannica in quegli anni spesso non abbia fatto il proprio dovere per paura o per eccesso di patriottismo.

Truth – Il Prezzo della verità

Mary Mapes ( Cate Blanchett) è la produttrice del famosissimo programma informativo 60 Minutes Wednesday e dirige il suo team con efficienza e successo. A pochi mesi dalle elezioni presidenziali del 2004, i reporter Mike Smith (Topher Grace), Lucy Scott (Elisabeth Moss) e l’ex Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid) la mettono al corrente della possibilità di aver a breve le prove che indicherebbero che il Presidente Bush ai tempi della Guerra del Vietnam fosse stato raccomandato per una base militare negli Stati Uniti, onde escluderlo dal servizio al fronte, come toccato in sorte a ben mezzo milione di suoi coetanei.

Si tratterebbe di una notizia bomba, di un vero e proprio scandalo dalla portata storica, e di uno scoop incredibile per la trasmissione, onde per cui accettano di incontrare colui il quale si è detto in possesso dei documenti che proverebbero il tutto: il vecchio e malato Bill Burkett (Stacey Keach) che li rassicura sull’autenticità della documentazione. In poco tempo Mapes crea un reportage per l’anchorman di punta: il grande Dan Rather (Robert Redford). Tuttavia appena finita la puntata sia la Mapes che Rather che i loro collaboratori verranno attaccati sistematicamente da più parti, accusati di non aver controllato la veridicità delle fonti, il tutto con esiti imprevedibili e funesti…

Film diretto con mano ferma e sicura da James Vanderbilt, Truth è un vero e proprio gioiello, un film d’inchiesta capace di appassionare, far riflettere e di tenere incollati alla sedia, grazie ad una sceneggiatura dello stesso Vanderbilt che ben sublima ciò che la Mapes trattò nel suo libro Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power. Lo scandalo Killian era e rimane uno dei più controversi della recente storia statunitense, sul quale non si è mai riusciti a raggiungere un’uniformità di pareri, che ancora oggi divide l’opinione pubblica tra coloro i quali vi videro l’accanimento dei media liberali contro un Presidente simbolo del nuovo conservatorismo, e chi invece l’ennesima prova dell’arroganza del potere e in particolare del sistema di interessi ed amicizie influenti che circondava Bush, formato da uomini privilegiati, senza morale e bugiardi.

Ad ogni modo Truth è senza ombra di dubbio un film perfetto per far capire quanto difficile e rischioso sia il mestiere di giornalista, quanto possa essere pericoloso mettersi contro il potere politico e come gli Stati Uniti sovente si dimentichino di essere la patria della libertà e del giornalismo libero.

Un film da rivedere e riscoprire.

Deadline USA – L’ultima minaccia

Humprey Bogart è passato alla storia per le sue incredibili interpretazioni di uomini cinici dal cuore d’oro, detective malinconici e disincantati o gangsters senza rimpianti. Tuttavia il divo di Casablanca e La Foresta Pietrificata, è stato anche il protagonista di uno dei film migliori mai fatti sul giornalismo, le sue bizzarre e sfuggenti regole, nonché sulla sua importanza come strumento di garanzia per la democrazia e la legalità.  Stiamo parlando di Deadline USA del 1952, diretto da Richard Brooks ed ispirato alle vicende che portarono alla chiusura del  New York World  nel 1931, che portò i figli del grande Pulitzer a decidere di vendere il giornale di famiglia, rinunciando dietro pressioni politiche a continuare l’opera giornalistica ed editoriale del padre. In parte vi è anche riferimento alla chiusura del New York Sun, che fu oggetto di pressioni e minacce a causa di alcuni articoli inerenti la criminalità organizzata scritti dal giornalista Malcolm Johnson, che gli fruttarono nientemeno che il Premio Pulitzer, e che furono utilizzati da Elia Kazan per il suo leggendario film Fronte del Porto.

In Deadline USA Bogart era lo scorbutico, audace e intransigente Ed Hutcheson, direttore del The Day, giornale che dirige con mano sicura e che appartiene a Margaret Garrison (Ethel Barrymore) la vedova del fondatore. Nonostante l’energia e la lealtà di Ed, la donna ha ormai da tempo deciso di vendere il giornale, proprio mentre Ed ha per le mani lo scottante caso di una donna assassinata che risulta essere molto vicina al boss della criminalità Tomas Rienzi. Mix perfetto di colpi di scena, doppio gioco e intrighi che mischiano il mondo della finanza con la criminalità e la politica, questo Film d’Inchiesta rappresenta una vera e propria pietra miliare, un punto di riferimento a dir poco basilare nel genere, creando la figura del direttore tutto d’un pezzo, sprezzante delle minacce e dei ricatti, disposto a tutto pur di salvaguardare il diritto della stampa ad informare il popolo e che usa ogni astuzia, ogni mezzo pur di pubblicare. Il tutto in un’epoca dove la stampa era sovente dipinta in modo sprezzante dal cinema.

Innumerevoli personaggi si sono ispirati all’Ed di Bogart, basti pensare al Perry White a capo del Daily Planet dove lavorano Clark Kent e Lois Lane nel DC Universe o all’istrionico e fumantino J.Jonah Jameson (forse più per gli aspetti negativi!) nel Marvel Universe di Spiderman. Di certo Deadline USA rimane uno dei film più importanti del genere, in un’epoca (quella degli anni 50) che di lì a poco sarebbe stata scossa dal Maccarstimo e dai toni cupi di una Guerra Fredda che avrebbe condizionato i media in ogni loro aspetto.

Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Ebbene si, tra i 10 migliori film d’inchiesta c’è anche questo capolavoro del cinema italiano, realizzato in quel 1970 dove l’Italia era scossa da scandali, attentati, divisioni politiche, dove la stampa sguazzava nel torbido e le forze dell’ordine sovente andavano a braccetto con l’eversione che di lì a poco avrebbe fatto dello stragismo il metodo preferito per influenzare la vita politica e sociale della nostra penisola. Basti pensare che il film fu vietato ai minori di 16 anni, e che alcuni dirigenti della Questura di Milano ne chiesero il sequestro, che per fortuna non avvenne per volontà dell’illuminato Questore Giovanni Caizzi, che in seguito avrebbe fatto passare anche Il fiore delle Mille e una Notte di Pasolini.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto fu quindi diretto da Elio Petri in un periodo storico aspro, violento, dove di lì a poco vi sarebbe stato un tentativo di Golpe da parte dell’estrema destra e in cui da poco si era consumato il terrificante attentato a Piazza Fontana, nonché la morte misteriosa dell’anarchico Giuseppe Pinelli, di cui la stampa dell’estrema sinistra nonché la sinistra extraparlamentare accusò il commissario Calabresi (che poco tempo dopo sarebbe stato assassinato da un commando di Lotta Continua). E proprio Calabresi (o una sua trasfigurazione) apparve a molti l’ispirazione per un Gian Maria Volonté monumentale, istrionico, entrato nella leggenda del cinema italiano per una interpretazione geniale e intensa come poche altre.

Il film aveva come protagonista Volonté nei panni di un Dirigente della Polizia di Stato, colpevole di aver ucciso la propria amante e che in una sorta di delirio che dall’onnipotenza ondeggia verso una volontà di essere punito e scoperto per il suo misfatto, lo porterà a confondere, ricattare, minacciare e depistare i colleghi, salvo poi confessare tutto con una lettera fatta recapitare agli inquirenti. Volonté crea qui un personaggio dalla doppia faccia, sadico, dissimulatore e mentitore da un lato, perfetto esempio del poliziotto e guardiano del sistema dall’altro, squisitamente costruito per essere tutto e il contrario di tutto.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto in realtà nasconde in sé un feroce atto d’accuso contro la Polizia italiana di quegli anni, contro il Potere inteso come sistema, dittatura dell’arroganza e dell’impunità. Contemporaneamente è un atto di accusa ad un certo estremismo di destra che allora (come oggi) trovava spesso tra le forze dell’ordine italiane un terreno fertile per creare una sorta di doppia morale, di doppia personalità, generando un sistema di impunità e corruzione per il quale chi fa parte delle Forze dell’Ordine non è mai chiamato a rispondere dei propri crimini anche quando essi sono palesi. Erano del resto gli anni della strategia della tensione, in cui la Polizia e la Magistratura sembravano quasi ossessionate dal pericolo rosso, lasciando invece pressoché incolumi le bande criminali, la Mafia, i grandi corruttori e tangentari, nonché  il terrorismo di destra a cui spesso una certa parte dello Stato strizzò l’occhio.

Grande successo di pubblico e critica, Vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria al 23° Festival di Cannes e Premio Oscar come Miglior Film Straniero nel 1972, il film di Petri è sicuramente molto diverso dagli altri presenti in questa classifica, ma non per questo meno importante o calzante, a dimostrazione del fatto che spesso il cinema tramite la trasfigurazione sa affrontare temi complicati e attuali.

Kill The Messenger – La regola del gioco

Pochi giornalisti sono stati più coraggiosi e sfortunati di Gary Webb, autore di uno tra i reportage più audaci, interessanti e che gli fruttò la fama di vero e proprio segugio nell’ambiente giornalistico tra la fine degli anni ’80 ed inizio anni ’90 negli Stati Uniti. Nel 1996 Webb pubblicò infatti presso il San José Mercury la sua inchiesta inerente i collegamenti tra i cartelli del traffico di droga, la CIA, i gruppi paramilitari di estrema destra del Sud-America e la criminalità statunitense intitolata Dark Alliance. Ma i risultati della sua inchiesta, se da a un lato gli fruttarono fama a livello internazionale e riconoscimenti, dall’altro convinsero i maggiori quotidiani ed agenzie informative statunitensi a fare delle indagini sul caso che, mosse sovente dall’invidia e dall’incredulità per essersi fatti sfuggire una notizia del genere, arrivarono alla conclusione che Webb doveva essersi inventato tutto o quasi…

Sulla sua vicenda, Michael Cuesta ha creato nel 2014 uno dei migliori Film d’Inchiesta del nuovo millennio, con un cast di prima grandezza che comprendeva oltre ad un intenso e rabbioso Jeremy Renner nei panni del protagonista, anche Rosemarie DeWitt, Ray Liotta, Barry Pepper, Mary Elizabeth Winstead, Andy Garcia, Tim Blake Nelson, Paz Vega, Michael Sheen, Michael K. Williams e Oliver Platt.

Kill the Messenger è il perfetto esempio di quanto ingrato possa essere questo mestiere, di quanto pericoloso possa essere mettersi a scavare nei segreti del Governo, di quanto l’invidia e la competitività in un settore informativo possa essere un’arma potentissima nella mani di chi ha qualcosa da nascondere tra le alte sfere. Renner fa del suo Webb un alfiere del concetto più alto di giornalismo, un reporter fin troppo abile nel suo lavoro, capace di arrivare dove altri (ben più titolati e blasonati) non sanno o non vogliono più arrivare perché troppo disabituati a sporcarsi le mani. La campagna denigratoria di cui Webb venne fatto oggetto, rivive qui in tutta la sua gretta potenza, in tutta la sua selvaggia efficacia, che rovinarono la vita e la carriera di un professionista esemplare ed abile, che ebbe il coraggio di denunciare quei lati oscuri dell’America che, nell’epoca post-muro di Berlino, il pubblico non voleva credere.

Il mercato della droga, i Contras, la CIA, i sabotaggi verso la DEA, i Cartelli del Sud-America, l’operazione di narcotizzazione massiccia nei ghetti statunitensi…tutto questo viene a galla nell’odissea professionale e personale creata in Kill the Messanger, dove il regista tiene la pistola puntata alla tempia di un mondo giornalistico che sovente diventa autoreferenziale, ipocrita, falso e vigliacco. Webb ebbe il solo difetto di gettare luce su qualcosa di così incredibile, ed orrendo, così mostruoso che i suoi stessi colleghi, i suoi amici, il pubblico semplicemente si rifiutarono di credergli per paura o per incredulità.

Il film di Cuesta è quindi un monito per ricordarci che non è il giornalismo in sé a fare la differenza, ma sopratutto chi vi lavora, i valori e l’integrità morale che lo abitano. Un film amaro, ma pieno di valori e portatore di un messaggio di verità e giustizia.

Il Caso Spotlight

Scritto e Diretto da Tom McCarthy, Il Caso Spotlight si è aggiudicato il Premio Oscar per Miglior Film e per la Miglior Sceneggiatura Originale, senza dimenticare le altre quattro candidature per la Regia, Miglior Attore non Protagonista, Miglior Attrice non Protagonista e Miglior Montaggio. E si può dire a tre anni di distanza che forse qualche statuetta in più non sarebbe stata poi così scandalosa per un film potente, struggente, inquietante ma sempre perfettamente calibrato, dal ritmo impeccabile, che non perde mai una sola oncia di realismo e che ha avuto il grande merito di fare conoscere al grande pubblico l’orrenda vicenda legata ai numerosissimi casi di pedofilia che negli Stati Uniti coinvolsero moltissime parrocchie e che vennero portati alla luce da una minuziosa indagine del Boston Globe condotta dal team Spotlight.

Il cast è di prima grandezza e comprende Micheal Keaton, Mark Ruffalo, Liev Schreiber, Rachel McAdams, Stanley Tucci, Brian d’Arcy James e Billy Crudup. Tutto viene fatto partire nel 1976, dove in un stazione di Polizia di Boston il prete cattolico John Geoghan è stato arrestato con l’accuso di molestie verso minori; nel Distretto è presente anche un alto clerico della diocesi e quando sul posto arriva anche il Procuratore Distrettuale i poliziotti ricevono l’ordine di non parlare con nessun giornalista dell’accaduto. Intanto il prete viene lasciato tranquillamente andare. Già in questa scena iniziale è riassunto ciò che il gruppo di giornalisti scoprirà: una sequenza inimmaginabile di molestie e abusi sessuali coperti grazie all’aiuto degli alti gradi del clero statunitense, sopratutto dell’Arcivescovo Bernard Francis Law, ma anche grazie alla negligenza delle autorità giudiziarie e del corpo di Polizia.

Il film è magistrale nel mostrare il processo di raccolta delle informazioni e la capacità da parte dei protagonisti di far breccia in chi, per paura, vergogna o insicurezza, aveva taciuto o aveva cercato di dimenticare ciò a cui aveva assistito, o peggio ancora ciò che aveva subito. Il Caso Spotlight è uno dei più claustrofobici ed inquietanti tra i Film d’Inchiesta trattati in questa lista, e ha anche il merito di puntare il dito contro lo stesso mondo dei media, che spesso in nome delle vendite e della commercialità delle notizie nel mondo moderno, rinuncia alla sua missione di approfondire ed indagare. Però, alla fin fine, il film di McCarthy mostra come il coraggio e la volontà nel giornalismo, possano migliore la vita delle persone, proteggerle, sovente sostituirsi alle autorità quando queste vengono meno ai loro doveri…insomma ci fa ancora una volta capire quanto basilare sia il loro ruolo di cani da guardia nella società contemporanea. Il giornalismo, quello vero, può permettere al mondo di diventare se non altro un posto più sicuro, anche solo per un attimo…

Good Night and Good Luck

Se è mai esistito un momento in cui il giornalismo si prese sulle spalle la causa della libertà nel suo senso più ampio, più universale e fondamentale, ebbene quello fu il giorno in cui Edward R. Murrow, anchorman e giornalista di punta della CBS, decise nel novembre del 1953 di denunciare la violenza, il fanatismo e le continue ingiustizie che, in nome della sicurezza nazionale e della lotta al comunismo, il fanatico Senatore Joseph McCarthy. Il senatore ormai da tempo aveva cominciato a creare liste di proscrizione, dentro le quali venivano di volta in volta inseriti i nomi di quanti erano accusati (senza alcun tipo di prova) di essere simpatizzanti comunisti. Il clima ancora oggi è ricordato come quello di una vera e propria caccia alle streghe e quando Murrow ebbe le prove dell’arbitrarietà e totale inconsistenza delle prove sulle quali McCarthy basava la sua crociata, cominciò ad attaccarlo dai microfoni del suo seguitissimo show serale del martedì sera: See it Now.

George Clooney con il suo Good Night, and Good Luck ha narrato quei terribili momenti del dopoguerra americano, la psicosi collettiva che permise ad uno squallido, egocentrico e cinico politico di avvalersi di un clima politico sempre più teso per il proprio tornaconto personale. Il film è in un bianco e nero elegante, espressivo e azzeccatissimo, che esalta invece di mortificare i volti, le voce e le interpretazioni di un David Strathairn che fa del suo Murrow uno strenuo, indomabile ma sempre professionale difensore della libertà del giornalismo e della stampa. Il resto del cast comprende, oltre che allo stesso Clooney nei panni del produttore e amico di Murrow Fred Friendly, Robert Downey Jr. nei panni dell’inviato Joseph Wershba, Frank Langella in quelli del capo della CBS William Paley, mentre Jeff Daniels è Mickelson, il Direttore di CBS News.

Candidato a 6 Premi Oscar, questo straordinario Film d’Inchiesta purtroppo non si aggiudicò nessuna statuetta, lo stesso successe ai Golden Globes ed ai Bafta, mentre a Venezia David Strathairn vinse la Coppa Volpi. Davvero poco per un film girato e scritto in modo perfetto, cristallino, intelligente, praticamente girato solo ed esclusivamente dentro i ricreati studios della CBS, generando una sorta di viaggio nel tempo a quei primi anni ’50. Su tutto domina il tema della responsabilità del giornalismo, di cosa succede quando i mass media fanno a braccio di ferro con il potere politico, e quanto sia facile manipolare ed influenzare le masse utilizzando la paura ed il sospetto. Il giornalismo può e deve sempre essere al servizio dei cittadini, costi quel che costi…

Insider – Dietro la verità

Diretto nel 1999 da sua maestà Micheal Mann, Insider portò sullo schermo la terrificante odissea di Jeffrey Wigand, ex vice-presidente del reparto ricerca e sviluppo della Brown & Williamson (uno dei colossi del tabacco) e una delle “gole profonde” più importanti della storia americana. Il film è frutto di una sceneggiatura dello stesso Mann e di Eric Roth, basata sullo speciale creato da Marie Brenner per Vanity Fair intitolato L’uomo che sapeva troppo. Il film però era anche focalizzato sull’incredibile iter e la difficilissima genesi di uno speciale del popolare programma 60 Minutes della CBS con protagonista Wigand, prodotto dal reporter, produttore e uomo di punta di 60 Minutes Lowell BergmanInizialmente reclutato come semplice consulente tecnico su alcuni documenti della Brown & Williamson Tobacco, Wigand (che aveva firmato un accordo di riservatezza) decise di divulgare tutto ciò che sapeva sull’industria delle sigarette quando i suoi ex datori di lavoro cominciarono a minacciare lui e la sua famiglia.                    Nell’intervista Wigand fece capire che le industrie del tabacco stavano creando sigarette con sempre più nicotina, con lo scopo di creare dipendenza nei consumatori che aumentasse esponenzialmente le vendite e di conseguenza i profitti; il fatto che ciò creasse danni alla salute delle persone e che fosse illegale instaurare una dipendenza non li tangeva minimamente.

Il film ha il suo cardine in un cast monumentale, perfetto, che si muove sullo schermo con una precisione millimetrica, e in particolare ha il suo cuore nella contrapposizione tra i due protagonisti, appartenenti a due mondi (quello del capitalismo spietato e quello del giornalismo) che ben poco accomuna. Russel Crowe crea un Wigand sempre apparentemente sotto le righe, controllato, freddo, dimesso ma che è sul punto di esplodere e perdere il controllo da un momento all’altro. Viceversa Al Pacino illumina il suo Bergman di un forza, idealismo e una determinazione viscerali ed esplosive, sovente però soffocate e tenute a bada e quasi sul punto di spegnersi. Christopher Plummer, Diane Verona, Philip Baker Hall, Bruce McGill, Michael Gambon e Philip Baker Hall completano il cast di questo film drammatico, intenso, pieno di colpi di scena e sublimato da una colonna sonora di Hans Zimmer divenuta a dir poco leggendaria.

La straordinaria fotografia di Dante Spinotti genera un universo plumbeo, oscuro, perennemente soffocato dal cemento, dal vetro, dalla pioggia, torbido così come lo fu l’intera vicenda qui descritta, che dimostra ancora una volta quanto il potere (politico od economico) sia disposto a tutto pur di sopravvivere. Rovinare la vita delle persone, calunniarle, ricattarle, minacciarle…il modello capitalistico totale da cui il protagonista fugge in cerca di libertà, muove in questo film stupendo i fili con l’abilità di un ragno, cercando di soffocare la verità, di fermare con ogni mezzo chi la difende. Alla fin fine Insider è un Film d’Inchiesta che non punta il dito solo contro le multinazionali, ma anche contro quel giornalismo commerciale e dozzinale che da difensore dei diritti e della verità, si svende per abbracciare la logica del puro profitto, dimentico della sua missione.

Insider rimane senza ombra di dubbio uno dei più grandi film di fine millennio scorso, uno dei migliori di Mann e risulta assolutamente imprescindibile nella nostra classifica. Il fatto che non occupi una posizione più alta è perché al secondo e primo posto troviamo due pezzi da 90…

JFK – Un caso ancora aperto

Il film testamento di Oliver Stone. La sua primizia, il suo capolavoro in termini di fusione tra scrittura, regia, recitazione, composizione ed emozione, esaltate da una durata fiume che invece che renderne difficile la fruizione la agevola, guida lo spettatore in un universo labirintico, infido, dove i personaggi si muovono senza avere mai neanche per un istante il controllo di ciò che accade. Si certo, il grande regista ha firmato altri capolavori come Platoon, Ogni Maledetta Domenica, Scarface, Wall Street, Nixon o Snowden, ma nessuno di questi ha generato la stessa mole di discussioni, ha creato conseguenze sul piano politico o legislativo. Sopratutto nessuno pulsa e comunica una visceralità così forte rispetto al suo autore.

JFK non ha al centro un vicenda facile, in quanto la morte di John Fitzgerald Kennedy era e rimane uno dei più spaventosi momenti ed angosciosi misteri non solo della storia americana, ma di quella contemporanea, un evento che ha cambiato il mondo e rivoluzionato la geopolitica mondiale in modo assoluto. Stone espone in modo dettagliato e volutamente non lineare la tesi che a suo tempo portò avanti il Procuratore Distrettuale di New Orleans Jim Garrison (interpretato da un Kevin Costner in stato di grazia). Garrison era convinto che dietro la morte del Presidente non ci fosse un povero pazzo filo-comunista, ma una complessa e variegata congiura che coinvolgeva i vertici militari, industriali, la Mafia e i Servizi Segreti, che eliminarono Kennedy per fermarne il disegno politico che mirava per il secondo mandato ad un disimpegno militare dall’Asia e a una riappacificazione con l’Unione Sovietica.

Questo film ha al suo interno un cast a dir poco gargantuesco, che comprende divi e star del calibro di Tommy Lee Jones (che si guadagnò una Nomination all’Oscar), Gary Oldman, Kevin Bacon, Sissy Spacek, Joe Pesci, Jack Lemmon, Walter Matthau, John Candy, Donald Sutherland, Edward Asner, Michael Rooker, Jay Sanders, Dale Dye, Vincent D’Onofrio e lo stesso Jim Garrison. Frutto di un lavoro estenuante sulla sceneggiatura da parte di Zachary Sklar e dello stesso Stone, può essere suddiviso in quattro sotto-trame che dal micro al macro guidano il pubblico in un mondo pieno di bugie, falsità, false piste e confessioni orrende, di un gioco di specchi dove “ciò che è bianco è nero, e ciò che è nero e bianco”. JFK è valorizzato da un montaggio di Pietro Scalia e Joe Hutshing (premiati con l’Oscar) che dona al tutto un ritmo e una intensità difficilmente riscontrabili in qualsiasi altro detective-movie o crime, che valorizza in modo perfetto una fotografia di Robert Richardson che fa un uso sapiente del bianco e nero, del colore nelle sue diverse forme, rendendo questo viaggio tra i fantasmi e gli spettri della storia americana sovente terrificante e inquietante. Anche Richardson fu premiato con l’Oscar.

JFK ci dona una visione da incubo del “meraviglioso paese”, stretto tra le spire di una mostruosa cospirazione guidata da uomini oscuri, potenti e guerrafondai, fascisti e innamorati del potere nelle sue diverse forme. Stone insegue la linea della plausibilità, della verosimiglianza, mostrandoci la tragedia di un paese che, a detta del regista, non si riprese più da quella tragedia e assistette attonito alle successiva morti di Martin Luther King e Bob Kennedy. Anche loro “ufficialmente” uccisi da pazzi, da lupi solitari.

L’eco del film fu talmente imponente da creare un atto Presidenziale: il President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act of 1992 firmato da Presidente George Bush, che fu da base per creare una commissione d’inchiesta denominata U.S. Assassination Records Review Board che fu incaricata di proseguire le indagini per far luce sulla morte del Presidente. La desecretazione degli atti segreti relativi alle indagini sulla sua morte è avvenuta l’anno scorso con 2800 documenti su 3300 che sono stati aperti al pubblico e che hanno creato un aumento incredibile di teorie su cosa successe veramente in quell’autunno a Dallas. Per ora vi basti il nostro invito a recuperare questo capolavoro della cinematografia mondiale.

Tutti gli uomini del presidente

In cima alla nostra lista sui 10 migliori Film d’Inchiesta di sempre non può che esserci che il capolavoro di Ala Pakula del 1976, con Robert Redford e Dustin Hoffman nei panni dei due leggendari reporter del Washington PosBob Woodward e Carl Bernstein che portarono con la loro tenacia e professionalità alla luce la montagna di oscuri crimini e illegalità che avevano da sempre caratterizzato la Presidenza Nixon, e che ebbero nello scandalo Watergate la classica goccia che fa traboccare il vaso. Quello che era sembrato un semplice crimine di effrazione senza particolare interesse, attirò l’attenzione dei due reporter quando scoprirono che uno dei “ladri” era un ex operativo della CIA. Da quel momento i due segugi si scontreranno con un muro di omertà e misteri che invece di scoraggiarli li convincerà ancora di più di essere sulla pista di qualcosa di grosso, di imperdibile, di storico.

Straordinario nella regia, nel ritmo e nella complessità della sceneggiatura creata da William Goldman (premiato con l’Oscar), Tutti gli Uomini del Presidente si avvale di un cast che oltre a Redford e Hoffman ha al suo interno Jason Robards (premiato con l’Oscar), Hal Holbrook nei panni del famoso “Gola Profonda”, Jack Warden e Martin Balsam. Le scenografie di George Jenkins e George Gaines (indovinate? pure loro premiati con l’Oscar per questo film) e la fotografia di Gordon Willis crearono un universo continuamente alternato tra luce e oscurità, tra giorno e notte, capovolto nei suoi significati e nelle sue caratteristiche. Si perché la verità, la realtà, ciò che guida i protagonisti e quindi lo spettatore verso la reale natura della vicenda, verso ciò che si nascondeva veramente dietro il fantomatico “Comitato per la Rielezione” emerge quando il sole cala, quando l’oscurità avvolge un Washington ipocrita, falsa e torbida dietro la sfavillante apparenza.

Tutti gli Uomini del Presidente ha rinnovato completamente un genere che sovente aveva nella stampa un protagonista esclusivamente negativo, dove i giornalisti non erano mai dipinti in modo positivo ma sovente come sciacalli, opportunisti, mentecatti e mercenari. Su tutto aleggia la presenza di un Nixon che appare solo e solamente nei filmati di repertorio, ma con la stessa inquietante consistenza del Grande Fratello di Orwell. Nessun altro film ha infatti mostrato così bene ed in modo così realistico e dettagliato le difficoltà, lo scetticismo, gli insulti e sovente i pericoli che si nascondono dietro la professione di giornalista, o ha fatto capire quanto importante e sottovalutato sia sovente il loro apporto alla salute di una democrazia che non deve mai abbassare la guardia contro le spinte autoritarie che provengono da chi invece che servire il popolo pensa di doverne essere servito.

Importantissimo dal punto di vista storico, il film di Pakula nel 2010 è stato selezionato per la conservazione dalla Libreria del Congresso degli Stati Uniti, e da tempo è stato inserito nella lista dei 100 film di maggior ispirazione mai fatti per l’American Film Institute, mentre Woodward e Bernstein hanno finito per occupare la posizione numero 27 tra i migliori eroi del cinema. Mica male per due scribacchini del Post!