Omicidio al Cairo: recensione del film
La recensione di Omicidio al Cairo: interessante pastiche tra dramma sociale e noir, vincitore al Sundance 2017.
É possibile realizzare un noir sullo sfondo dei delicati eventi sociopolitici che hanno portato alla rivoluzione egiziana del 2011? Per il regista Tarik Saleh la risposta è affermativa e il suo film Omicidio al Cairo ne è la prova. Già vincitore del World Cinema Grand Jury Prize al Sundance 2017, uscirà nelle sale italiane il 22 febbraio distribuito da Movies Inspired.
La pellicola, prodotta in Svezia, vede l’attore libano-svedese Fares Fares (noto a livello internazionale per Zero Dark Thirty, Safe House e Rogue One: A Star Wars Story) nelle vesti di Noredin, poliziotto corrotto del Cairo a cui viene affidato il primo grande caso: l’omicidio di una famosa cantante, compiutosi in una camera dell’Hotel Hilton. L’indagine viene, prontamente, bollata come “suicidio”; questa sentenza arbitraria non verrà accettata dal protagonista che, per una volta, andrà alla ricerca della verità contro il volere dei superiori, in particolare dello zio, capo della polizia (Yassar Ali Maher). Noredin si “perderà” ben presto all’interno di un complesso e quanto mai aberrante sistema politico/giudiziario che giungerà al suo culmine con l’avvento della rivoluzione.
Omicidio al Cairo – Un noir in piena regola
Tarik Saleh (già autore del peculiare lungometraggio d’animazione Metropia) mette in scena un soggetto al quale è emotivamente legato per via delle sue origini egiziane e, prendendo come spunto un caso di cronaca nera realmente accaduto (la morte della libanese Suzanne Tamim), realizza un noir in piena regola (talmente fedele al genere e alle sue regole da risultare, quasi, didascalico). Gli elementi, seppur adattati ad una situazione contemporanea, ci sono tutti: il protagonista è un poliziotto scialbo e annoiato, devoto esclusivamente al fumo e al lavoro; tratta i colleghi con distacco e supponenza e conduce una vita privata inesistente (con tanto di lutto matrimoniale alle spalle e una dimora dimessa e desolante). Conscio del pericolo cui va in contro, decide di addentrarsi ugualmente nelle dinamiche del caso, che diverranno per lui motivo di ossessione (ingenua quanto irrefrenabile come si conviene ad ogni vero personaggio del suddetto genere). Non potevano mancare la femme fatale, qui interpretata da Hania Amar (si presenta in ufficio chiedendo aiuto e fornendo indizi essenziali e una pista per risolvere l’indagine) e una serie di caratteri che, rivelando una doppia natura, faranno crollare le “certezze” di Noredin.
Anche il titolo originale, The Nile Hilton Incident (diretto, incisivo e criptico), richiama a sé lo spirito del genere ma possiede, anche, un’ulteriore valenza: l’utilizzo del termine “Incident” non è casuale e sottolinea il concetto di incidente diplomatico che è perno del film. Il dualismo tra genere e questioni sociali è parte integrante della narrazione (la quale si sviluppa in un arco temporale di dieci giorni: dal 15 al 25 gennaio). La cadente dimora del protagonista, cui si faceva accenno prima, rappresenta un topos del noir ma riflette, come uno specchio, le limitazioni imposte dall’assetto politico del luogo. Queste, vengono affrontate dal regista attraverso l’utilizzo di una sottile ironia (l’approccio confuso e perplesso di Noredin nei confronti di Facebook e della televisione che trasmette solo un programma di Carlo Conti: la suddetta scena, potrebbe divertire non poco lo spettatore italiano) ma divengono, anche, motivo di dramma (i negativi delle foto, le uccisioni ingiustificate, il trattamento riservato alla testimone dell’omicidio e alla personalità coinvolta). Degno di nota è il rapporto professionale/umano del protagonista nei confronti dello zio che, trasversalmente, porta avanti il racconto rappresentandone, di fatto, il principio e la fine. Gli sviluppi dell’indagine e la ricerca della verità, non sono altro che un viaggio catartico per il protagonista, il quale scoprirà di essere “pedina passiva” nelle mani di un sistema senza alcuna possibilità di redenzione (simbolica la sequenza del cartone animato in TV).
Omicidio al Cairo – Esperimento riuscito?
Omicidio al Cairo può, dunque, dirsi un film riuscito? Non del tutto. Sebbene l’idea sia notevole la pellicola manca di atmosfera (essenziale nei noir) e di uno stile registico ben preciso. Spesso, si ha la sensazione di assistere a scene documentaristiche; probabilmente, una scelta voluta che collide, inevitabilmente, con la natura della pellicola. Valzer con Bashir raccontava, in maniera eccelsa, le tensioni politiche di un preciso momento storico servendosi, però, di momenti altamente suggestivi. Ciò, non danneggia la storia che si vuole raccontare ma rappresenta un valore aggiunto, in particolar modo, all’interno di un film di genere. La psicologia dei personaggi, inoltre, risulta appena accennata: difficile immedesimarsi, soprattutto, nel protagonista. Quel che possiamo fare, è intuire o immaginare i suoi stati d’animo in base alle azioni e scelte da lui compiute.
L’intento di intrecciare il dramma sociale con vicende più o meno fittizie, espone alcune sequenze al rischio di risultare forzate. Certe tematiche, invece, vengono persino abbandonate all’interno del plot (la morte della moglie di Noredin). Nonostante queste pecche, ci troviamo al cospetto di un progetto davvero interessante, in grado di raccontare, attraverso un espediente narrativo, una realtà difficile e, purtroppo, attuale. E questa, è una qualità per cui il cinema si è, spesso, contraddistinto.