Manuel: recensione del film di Dario Albertini
Un racconto di formazione asciutto e senza sentimentalismi per il primo film di Dario Albertini, che racconta il primo impatto col mondo di un ragazzo appena uscito da una casa famiglia.
Manuel è un ragazzo di 18 anni appena uscito da una casa famiglia. Infinitamente più maturo dei suoi coetanei, Manuel diventa grande ripulendo la casa della mamma, detenuta, cui spera di far concedere gli arresti domiciliari. Non sarà facile: bisogna convincere giudice e assistente sociale di essere pronti ad assumersi tutte le responsabilità del caso. Perciò Manuel tira a lucido la casa, si trova subito un lavoro e dimostra di essere autonomo e responsabile.
Manuel: l’opera prima realista di Dario Albertini
L’opera prima di Dario Albertini, fino ad oggi regista di cortometraggi, è un film molto interessante. Il regista ha anzitutto l’occhio per i set squallidi e abbandonati, che in questo caso sono la casa famiglia quasi fatiscente e l’appartamento con la brutta tappezzeria anni ’70 della casa della mamma sul litorale di Ostia. Entrambi i set sono corredati da dettagli azzeccati che rendono l’atmosfera decadente. Sono set ammirevoli perché veri, che non hanno nulla a che vedere con la maggior parte dei set italiani, usciti immancabilmente dall’IKEA.
Ciò incrementa tantissimo il (neo)realismo del film, che ha dalla sua anche delle facce ben scelte in ruoli chiave, come quello della mamma (Francesca Antonelli) e di Elpidio (Alessandro Di Carlo), ex membro della casa famiglia cui Manuel deve consegnare un vecchio quadro. Romanesco vero, non posticcio, controbilanciato però da figure meno riuscite, come quello dell’educatrice del centro (Raffaella Rea). Su tutti però spicca Andrea Lattanzi, che ha la faccia perfetta per il ragazzo che esce dalla casa famiglia e rimane spaesato ma non troppo. Precisi per una figura simile le giacche in acetato e l’orecchino: segno che il reparto costumi sa il fatto suo (e lo ribadisce quando presenta la mamma di Manuel con lo smalto rovinato).
Andrea Lattanzi come fulcro di Manuel
Albertini rende Lattanzi il fulcro del suo film, e gli dedica più primi piani del necessario, escludendo peraltro ogni inquadratura di controcampo e inserendo pochissime inquadrature frontali. Significa che Manuel deve essere il protagonista assoluto del film, tutti gli altri sono figuranti. Pochissime le eccezioni: la mamma, l’amico d’infanzia, il prete che lo ha tirato su. Personaggi che concorrono all’azione, ma alla fine contribuiscono pochissimo. È una scelta registica peculiare, forse azzardata: l’accusa del vezzo da neofita è dietro l’angolo.
A questo si aggiunge una storia vera che rifugge i sentimentalismi, raccontata in modo estremamente realistico, ma che ha la pecca di non avere alcun momento di svolta: è una storia piccina picciò, un po’ come se un vostro amico (Manuel) vi chiamasse al telefono e vi raccontasse cosa è successo da quando è uscito dalla casa famiglia. In più, l’incontro con l’attricetta che fa volontariato, figura tantissimo di maniera, si poteva tranquillamente togliere senza danni.
Non c’è altro, nessun punto di svolta, nessun momento in cui il ritmo accelera per poi eventualmente decelerare: in questo, Manuel è quasi un’opera verista, nel senso che Davide Albertini riprende Manuel e basta e al massimo il suo senso di soffocamento per tutte le responsabilità di cui in parte si è preso carico e che in parte si è visto forzatamente affidare. Ma il film come opera prima funziona più di tante altre, ed è migliore sotto molteplici aspetti. Aspettiamo che Albertini maturi: che non si perda in inutili vagheggiamenti o vezzi da principiante. Le capacità ci sono, e c’è ampio margine di miglioramento.