Cannes 2018 – Sophia: recensione del film di Meryem Benm’barek
Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2018, l'opera prima di Meryem Benm'barek fonde in sé tanti temi delicati e controversi, ma con un manierismo narrativo dolce e asciugato di eccessi drammaturgici.
Sophia è una ragazza marocchina poco più che maggiorenne. Durante un pranzo di famiglia, sentendosi male, scopre di essere incinta e, con la complicità della cugina, si reca in ospedale per partorire. Sophia però non è sposata e non ha nemmeno una relazione stabile con qualcuno ed è per questo una fuorilegge: le norme marocchine prevedono il carcere per chi ha rapporti fuori dal matrimonio. La ragazza ha quindi 24 ore per far comparire il padre del bambino di fronte alla giustizia.
Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2018, l’opera prima di Meryem Benm’barek fonde in sé tanti temi delicati e controversi, ma con un manierismo narrativo dolce e asciugato di eccessi drammaturgici, lasciando che la drammaticità degli eventi narrati traspaia dalle facce e dai dialoghi dei protagonisti. L’interpretazione della storia di questa ragazza è valsa al film il riconoscimento come miglior sceneggiatura, probabilmente proprio grazie a questa misura del racconto, che pur non risparmiando niente agli occhi degli spettatori, non esagera in emotività e ostentazione drammatica che avrebbe decisamente appesantito la storia. In solo un’ora e 20 minuti, Meryem Benm’barek riesce a condensare i vari aspetti, pragmatici e psicologici della situazione.
Sophia è l’opera prima di Meryem Benm’barek premiata come miglior sceneggiatura nella sezione Un certain regard.
Per questo vanno ringraziati i volti espressivi e impietriti di fronte all’evidenza dei due presunti genitori della piccola neonata: Sophia, interpretata da Maha Alemi, e Omar, che porta i lineamenti di Hamza Khafi, sono i due emblemi di questa storia, in cui grazie alle loro performance sorprendentemente opportune e misurate, sprigionano nei loro sguardi le difficoltà interiori che li travolgono. Omar, vittima suo malgrado della lucidità materiale della ragazza, si veste di un silenzio virtuoso e impenetrabile, che viene scalfito solo dalle rivelazioni di quest’ultima, in un plot twist che offre una prospettiva sulla narrazione del tutto diversa rispetto a quella fomentata fino a quel momento. Se da un lato, quindi, la giovane madre non dimostra un particolare attaccamento alla figlia, del resto non voluta e in qualche modo “estorta” dalla sua persona, si affrontano in rapida sequenza anche i vari problemi e le varie scelte che, in tale situazione, si trovano inevitabilmente di fronte a lei.
A fare da contraltare alla rigidità risolutiva della protagonista c’è l’espressione monocromatica di Omar, che cova rabbia e delusione, insieme a un’empatia a cui non riesce a sottrarsi. Solo di fronte al regalo della cugina il ragazzo si lascia andare a un breve sfogo iroso, quasi rassegnato a essere diventato un uomo deprecabile che, fino a qualche giorno prima non era in alcun modo. Il personaggio riassume su di sé le grandi qualità di un uomo perfetto, pronto a immolarsi per un bene maggiore, e la bassezza sentimentale che una situazione come quella che subisce può provocare, in termini di rabbia, rancore e astio. Le prospettive che il finale del film lascia intendere per la coppia a pochi giorni dal matrimonio sono tutt’altro che rosee e al pubblico non resta che immaginare le conseguenze che queste scelte di gioventù provocheranno nei due giovani ragazzi negli anni a venire.
Meryem Benm’barek affronta in modo convincente una storia come questa, già molte volte comparsa sul grande schermo, ma che spesso viene affogata in eccessi melodrammatici, che lasciano poco spazio a riflessioni interiori anche al pubblico e non permettono una reale e progressiva identificazione con i protagonisti. Alla regista va quindi l’indubbio plauso per aver reso grazia a una sceneggiatura che non a caso ha ricevuto premi già alla sua prima presentazione.