Biografilm 2018 – Whitney: recensione del documentario di Kevin Macdonald
Attraverso il suo documentario il regista Kevin Macdonald cerca di indagare sulla personalità della diva senza celebrarla mai ma tratteggiando appieno la sua essenza.
Whitney è un documentario diretto da Kevin Macdonald, presentato durante la 14a edizione del Biografilm Festival, incentrato sulla vita personale e lavorativa della celebre cantate Whitney Houston.
Whitney comincia con un tono e uno stile scintillante, ritmato: Macdonald ci presenta l’esegesi della vita della diva partendo dal contesto storico, dagli anni Ottanta, vibranti e artificiosi, con il bagliore catodico che esprimeva tutta la gioia del momento, dalle pubblicità del McDonald’s, ad MTV, Michael Jackson, Ronald Reagan, Clinton, Nelson Mandela, la musica pop. Scene a cui il regista decide trasversalmente di contrapporre un universo parallelo ma meno abbagliante, a partire dalle manifestazioni, alla violenza nelle strade, le proteste della comunità afroamericana, un contesto da cui partire per far comprendere determinate dinamiche della vita di Whitney.
Whitney, o Nippy, è stata una figlia d’arte, figlia della musica, considerato che la mamma Cissy e le due zie Dee Dee Warwick e Dionne Warwick erano cantanti molto talentuose. La madre ha cercato di allontanarla dal ghetto iscrivendola in una scuola prestigiosa, a cui parallelamente alternava il coro della Baptist Church. Il suo percorso comincia da qui, dalla sua dote innegabile, con le lezioni canore della madre.
Whitney: il documentario di Kevin Macdonald al Biografilm 2018
Ben presto comincia a fare le prime apparizioni televisive e poi il successo, immediato, febbrile, i Grammy, un ruolo hollywoodiano, l’amicizia con Robyn Crawford, il matrimonio con il cantante Bobby Brown, durato quattordici anni (durante i quali l’ha picchiata e tradita), e ancora la tossicodipendenza, la magrezza in scena, le numerose riabilitazioni, Bobbi Kristina, il divorzio, le riprese e la rovina, un vortice che avrà esito drammatico.
Whitney è un documentario che alterna video musicali, esecuzioni live della cantante, foto personali e interviste televisive, tra cui quella tristemente celebre rilasciata a Diane Sawyer. Partecipano e dialogano con il regista anche l’ex marito Bobby Brown, Kevin Costner con cui lavorò nel film Bodyguard, la madre Cissy Houston, i fratelli Michael e Gary e i produttori discografici L.A. Reid e Clive Davis.
Questo documentario ha due anime: una nostalgica e trionfale, un’altra molto plumbea e deteriorante. Ebbene verso quest’ultima il regista ha avuto un occhio di riguardo, spesso smembrando la narrazione in una rievocazione continua dei suoi demoni, purtroppo. Inevitabilmente il lato oscuro di Whitney è apparso come quello più interessante per Macdonald e si può notare come lui, in modo subdolo e cheto, ha cercato di trovare, tra i ricordi e le memorie familiari, la causa del turbamento emotivo della Houston, tracciandone la storia che molti conoscono, ovvero attraverso la fama, una relazione tormentata e l’abuso di droghe e di sostanze che l’hanno svigorita fino alla corrosione.
Un biopic mai celebrativo che indaga sui motivi dell’infelicità di Whitney Houston
In questo non facile panorama da argomentare, il regista è riuscito a scovare una vicenda del passato, un trauma doloroso dell’infanzia di Whitney, di cui ha ricevuto conferme da parte di alcuni membri della famiglia. Una triste novità che ha colto al volo e che, se è possibile, ha aggiunto dramma e infelicità al ricordo di questa donna, così fragile, così tenera.
Whitney purtroppo non è come Amy di Asif Kapadia o Janis di Amy Berg, o Maria by Callas di Tom Volf, solo per citarne alcuni. Il loro fascino nasceva proprio dal saper unire biografia e talento, scene personali e interpretazioni, interviste e narrazione, in modo da strutturare il contesto e mostrare la persona oltre l’arte, oltre la fama, la donna oltre la diva: la Nippy oltre Whitney. Ciò che manca a Whitney è l’anima di un’artista, la sua musica è mostrata come un supplemento disordinato, non c’è profondità o complessità e il contesto musicale, politico e sociale è esasperato da digressioni visive vertiginose e accavallate l’una sull’altra.
Ciò che si capta in modo più chiaro è la spersonalizzazione di una donna, che ha un volto in famiglia, più lieto, più normale e intimo, Nippy, e un altro da diva dissoluta, esplosiva, che ha venduto 200 milioni di dischi e ha riempito stadi e arene. Una delle due personalità l’ha sicuramente portata all’autodistruzione, un percorso fatale di cui l’ex marito, Bobby Brown, si rifiuta di categoricamente di parlare, arrivando a negare che Whitney Houston abbia avuto problemi di droga e di cui il suo produttore, L.A. Raid, si è finto inconsapevole, affermando di non aver mai saputo della tossicodipendenza della cantante, cosa che ha fatto alzare più di qualche sopracciglio.
Whitney: la spersonalizzazione di una diva
Ciò che manca nella biografia di Whitney paradossalmente è la musica, che appare ogni tanto privata di ogni centralità e appartenenza. Le uniche hit che si possono ascoltare principalmente sono I Wanna Dance with Somebody, How Will I Know e I Always Love You, che non aggiungono nulla alla complessità visiva, sono inserite con mestizia svuotando la narrazione, che già di per sé tende a persistere su alcuni tetri dettagli, come la stanza dell’albergo in cui è deceduta o il suo appartamento ormai svuotato di ogni ricordo.
Whitney è un documentario che incede tra le pieghe emotive di una diva, un biopic mai celebrativo che indaga sui motivi dell’infelicità di Whitney Houston, muovendo diversi j’accuse alla famiglia, alla società, ai fan, alla casa discografica, puntando il dito contro chi l’ha criticata, l’ha fischiata e ha contribuito a farne affievolire il bagliore.