Venezia 75 – Jinpa: recensione del film di Pema Tseden
Jinpa è un film che parte in modo troppo incerto e sonnacchioso, che cerca di risollevarsi nella parte centrale e migliora in un finale a metà tra fantasia e realtà.
Un camion sgangherato e in rovina procede per la sua strada tra le rarefatte e aspre distese tibetane, a 5000 metri d’altezza, dove persino pensare a volte sembra una fatica o un esercizio ripetitivo. La densità di popolazione è vicina allo zero, non ci sono alberi, non ci sono sostanzialmente fiumi, insomma niente che possa addolcire lo sguardo di chi, solitario è costretto a percorrere le sue polverose e dimesse strade.
Ed in effetti per Jinpa (attenzione è il titolo e anche il nome del vero attore che lo interpreta…si lo so è un pò strano), l’autista che per look e atteggiamento sembra uscito da Mad Max o Ken Shiro, mentre guida il suo camion, ha come unica consolazione le sigarette e l’autoradio dove manda all’infinito una versione orientale (e pure un pelo inquietante!) di O Sole Mio.
Durante quel viaggio però, simile a mille altri, Jinpa prima travolge a morte una capra, poi si imbatte in un viaggiatore coperto di stracci, che il caso voglia si chiami Jinpa come lui (interpretato da Genden Phuntsok) al quale offre un passaggio.
Il suo taciturno ospite rivela di essere diretto ad un villaggio poco distante, dove ha intenzione di uccidere l’uomo che assassinò suo padre molti anni addietro. Turbato e incuriosito, Jinpa in breve tempo scoprirà che quel breve incontro ha cambiato la sua monotona vita molto più di quanto si aspettasse.
Jinpa: un film dalle ambizioni troppo modeste per Venezia
Jinpa (a detta di chi scrive) ha un solo, enorme difetto: non è un film da Mostra del Cinema di Venezia. Non lo è per ambizione, per consistenza, per una regia di Pema Tseden discreta ma poco più, per una sceneggiatura che nasconde dentro belle intuizioni e buone trovate ma che non sviluppa abbastanza i personaggi, le motivazioni, non dà coerenza all’insieme.
Jinpa tuttavia ha sicuramente dentro un’energia che gli viene data dal suo omonimo protagonista, accattivante, burbero, a tratti simpaticamente ridicolo nel suo machismo un po’ occidentale da anni 80, un po’ post-apocalittico.
Allo stesso tempo Jinpa leva quell’alone di sacralità e trascendenza che sovente è stato imposto ad un Tibet che è e rimane una terra desolata abitata da povera gente, poveri diavoli, insomma il film restituisce dignità umana e materiale lì dove un certo occidente per decenni ha creato un mondo di fantasia a proprio uso e consumo.
Con una bella fotografia di Songye Lu, un buon montaggio di William Chang, Jinpa ha dentro di sé diversi generi, il road-movie, la commedia, il giallo, l’esistenzialismo e la dimensione del sogno felliniana, ma tutti questi in modo veramente lieve, incerto, per quanto in diversi momenti Tseden riesca a guidare lo spettatore in un mondo fatto di sogni, incertezza e silenzi dalla vena autoironica di ottima fattura.
Ma sono istanti, momenti, piccole gemme in un film che parte in modo troppo incerto, troppo sonnacchioso, cerca di risollevarsi o di cambiare direzione nella parte centrale, migliora in un finale a metà tra fantasia e realtà.
Ma la sceneggiatura, lo si vuole ripetere, non è abbastanza ambiziosa, e non basta il grande mestiere di Tseden o la irresistibile verve di Jinpa a spremere ciò che non si può da uno script troppo in antitesi con se stesso.
Jinpa ricorda certi piccoli film minimali anni 70, con il suo concentrarsi esclusivamente sul microcosmo umano di riferimento, il suo insistere sul concetto di identità, di verità, sui piccoli momenti, i piccoli dettagli, curando in modo maniacale l’ambiente interno e la dimensione percepita di quello esterno da parte dello spettatore.
Sicuramente un film che ha qualcosa da dire, ma lo fa in modo strano, confuso, e discordante, forse non meritando una vetrina prestigiosa come quella veneziana.