Serial Writers: autori e metodologia di scrittura seriale
Ci fanno ridere, ci fanno piangere, emozionare, affezionare e soffrire senza alcun ritegno. Sono parte integrante della nostra giornata. Addiction dalle quali non riusciremo mai a liberarci una volta per tutte. Di cosa parlo? Ovviamente delle serie tv. Ma cosa, o meglio chi, c’è dietro queste “perfette” creazioni del demonio che rendono la nostra vita piena o vuota, a seconda di come procede un episodio? La risposta è semplice: i serial writers!
Se Dio ha creato il mondo in sette giorni, il processo di creazione per ogni singola puntata di una delle nostre serie preferite, comedy o drama che sia, non è molto differente.
In vero, la serializzazione stessa è un processo che potremmo definire avere origini davvero pari alla creazione del mondo intero. Le forme televisive di serializzazione, fin dalla nascita della tv stessa, hanno avuto una grande importanza, sia per la loro capacità di poter coprire molte ore di programmazione ma, soprattutto, per catturare l’attenzione dello spettatore e intrattenerlo per molto tempo.
In questo periodo storico, dove la serie è riuscita ad ottenere un posto di privilegiata importanza tra le forme artistiche, andandosi a definire come vero e proprio genere, oltre ad essere altamente fruibile per chiunque destreggiandosi tra cables e networks, sarebbe riduttivo definirla come semplice prodotto di intrattenimento.
I processi dietro la struttura di ogni serie sono divenuti, col tempo, sempre più complessi, sia da un punto di vista logistico che da quello drammaturgico. Non c’è, quindi, da stupirsi se la serie occupa una certa rilevanza nel mondo artistico, assumendo tratti e caratteristiche molto simili a quelle del cinema. Assistiamo ad un fenomeno in cui grandi autori di cinema, come David Fincher (House of Cards), Martin Scorsese (Boardwalk Empire) e J.J. Abrams (Fringe), sono approdati nel mondo della serie, dando anche più sfogo al loro mondo creativo. Vi è un mondo, a partire dalla scrittura stessa, di infinita creatività, dedizione, potenza e tecnica, all’interno del prodotto seriale da far impallidire alcune delle pellicole degli ultimi anni. Esattamente per questo motivo, e per la capacità di sincronizzarsi con tutti i reparti all’interno dell’ingranaggio televisivo, dalle esigenze di budget e limiti del network fino alla post produzione, produttori e showrunners come Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy), David Chase (The Sopranos), Nic Pizzolatto (True Detective), Matthew Weiner (Mad Men), Vince Gilligan (Breaking Bad, X-Files), Ryan Murphy (Nip/Tuck, American Horror Story, Glee) sono da definirsi autori a tutti gli effetti; appunto, serial writers.
Ad investire, da sempre, su questa tipologia di prodotto, elaborando forme narrative originali, sperimentando con i generi e offrendo allo spettatore prodotti di sempre più elevata qualità, esportati in tutto il mondo con grande successo, sono gli americani. Se ci facciamo caso, il primo fra tutti a sperimentare nell’ambito televisivo, creando una serie cult di stampo più cinematografico senza rilegarla prettamente in un genere, ma mescolando elementi che vanno dal thriller al fantasy, fu proprio un regista: David Lynch con il suo Twin Peaks. E Lynch è stato solo il primo di un fenomeno in continua crescita ed espansione dagli anni ottanta fino ad oggi, che ha saputo svilupparsi e mutare in base agli argomenti e periodo storico, dando un prodotto sempre stilisticamente diverso.
Ma cosa differenza veramente un serial writers da uno sceneggiatore di cinema o scrittore?
Prima di tutto, la regola dello scrivere “solo di ciò di cui si conosce” vale anche per le serie televisive, soprattutto, come spiegata l’autore e creato della comedy How I Met Your Mother, Craig Thomas, nelle comedy. Thomas afferma di essersi ispirato moltissimo alla sua di vita privata e di aver ricreato dinamiche facilmente riconoscibili e vivibili per qualsiasi gruppo di amici, proprio per poter permettere quello stato di empatia con lo spettatore che, quindi, può non solo riconoscersi in uno o più personaggi, ma anche nella situazione attuale che sta vivendo. Viene creato una sorta di rapporto quotidiano tra la storia in sé per sé e lo spettatore. Esempio sono i viaggi mentali di J.D. (Scrubs, Bill Lawrence) o lo stile di vita fine anni novanta delle newyorkesi Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda (Sex and the City, Darren Star).
La differenza tra drama e comedy non è per nulla da sottovalutare. Troppo semplicistico classificare il genere comedy facile nella sua creazione e realizzazione, privo di dialoghi densi e trame intricate come in un drama; eppure far ridere non è una qualità che tutti posseggono ma, soprattutto, far ridere dalla carta allo schermo è una qualità ancora più difficile da possedere.
La comedy ha una qualità che la serie drama difficilmente possiede: una propria identità di linguaggio. Dialoghi, motti, modi di dire, citazioni delle comedy diventano parte del linguaggio di ogni giorno dello spettatore, entrando a far parte di un universo condiviso e generazionale. Pensiamo anche solo al celebre <<Bazinga>> di Sheldon (The Big Bang Theory, Chuck Lorre e Bill Prady) o <<How u doin>> di Joy (Friends, David Crane e Kevin Bright) o <<Legendary>> di Barney (How I Met Your Mother).
Questo introduce un secondo elemento importante nelle scrittura seriale: la necessità quotidiana di inserire ostacoli vari in opportunità narrative, dando uno stampo quasi epico alla narrazione ma che sfoci o che si fondi, sempre e comunque, nel realismo. Questo permette la serializzazione della storia, dilatando il tempo e l’arco di sviluppo dei personaggi nonché degli avvenimenti stessi. Ciò che non può fare uno sceneggiatore cinematografico è proprio dilatare. Deve restare il più possibile sul pezzo della storia, concentrando gli avvenimenti, dandogli una conclusione, nelle centoventi pagine predefinite; differentemente, un serial writers sviluppa solo un episodio in cento pagine, creando subito dopo un cliffhanger con l’episodio successivo. Possiamo quasi definire il tutto come un raggirare le regole dello spazio/tempo. Quelle cento pagine non saranno “mai” davvero un limite, sono solo le prime cento pagine da aggiungere alle cento pagine successive, e così via lungo tutto lo sviluppo del numero di episodi che compongono una stagione. Soffermandoci ulteriormente su questo aspetto, è essenziale dire che ciò non permette ai serial writers di dondolarsi sugli allori dilatando eccessivamente lo sviluppo e scorrimento della storia. Ogni avvenimento deve avere un suo senso, senza temporeggiamenti. Il vantaggio della serie stessa, di essere appunto fruibile in qualsiasi momento della giornata comodamente dal proprio divano di casa, o sull’autobus o durante un attesa, è anche il suo maggior svantaggio. Se un film non piace, è difficile che qualcuno si alzi nel bel mezzo di esso; mentre, nella serie, basta pochissimo per cambiare canale o passare ad altro. Altrettanto poco, a causa del crollo di ascolti, basta al network cancellare la serie prima ancora che la prima stagione finisca, come per il recente Wayward Pines.
Un buon serial writers sa di dover tenere per davvero incollato lo spettatore allo schermo, rendendolo partecipe della storia ma senza svelargli troppo della storia; soprattutto, senza farlo perdere in inutili ed infiniti dialoghi. E su questo nota di merito va, soprattutto, a Vince Gilligan, uno dei primi ad aver usato nell’ambito televisivo il “non dire ma fare capire”. Ciò che non viene detto, ma viene narrato attraverso le immagini, ha un impatto più decisivo sullo spettatore. A differenza della soap, composta da dialoghi estremamente teatrali ed esageratamente “detti”, pensati apposta per essere ascoltati e non guardati; la serie, agisce nel senso opposto. Il serial writer deve scrivere, esattamente come uno sceneggiatore cinematografico, in funzione dell’immagine. Deve portare lo spettatore a non distogliere lo sguardo, ma osservare ogni singolo movimento del personaggio, anche nel suo più assoluto silenzio. Basti pensare al pilota di Breaking Bad e la macchiolina di senape sul camice del dottore. In quella macchiolina si concentra lo sguardo e l’attenzione di Walter White, la sua reazione nell’apprendere di essere destinato alla morte. Senza scene madri o drammi esistenziali, in una semplice battuta, Gilligan ci fa capire la totale disperazione del suo personaggio.
“Le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano, ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo e che promettono di farci perlustrare.”
Il critico e giornalista Aldo Grasso, in questa citazione estratta da un articolo per La Lettura del Corriere della Sera, sottolinea il duplice compito del linguaggio della serie televisiva, la quale racconta non solo una storia ma la società stessa in cui viviamo, mostrando le sue contraddizioni e le sue trasformazioni, con una velocità tale da non essere eguagliata da qualsiasi altro mezzo di informazione culturale. E tutto questo viene mostrato attraverso una propria cifra linguistica ben precisa: visività, velocità, chiarezza.
Ognuno, ovviamente, sviluppa il proprio stile nel mostrare le immagini. Un’immagine non solo ci rimanda al nostro di mondo ma ci dice moltissimo del mondo di quel personaggio e della sua visione generale e totale di ciò che lo circonda. Basta anche solo pensare allo sfrenato estetismo di Brian Fuller in Hannibal e del suo modo di raccontarci la visione del mondo di Lecter ed il suo amore, contorto, nei confronti dell’esistenza; o il mondo cupo, letterario e lovecraftiano di Nick Pizzolatto, che si potrebbe “semplicemente” riassumere nella tragica e, quasi, apocalittica visione delle cose di Rust.
Una serie complessa come True Detective, nonostante la sua densità di dialoghi, riesce in egual modo a colpire lo spettatore senza annoiarlo. E come ci riesce senza farlo perdere in quel flusso di pensieri e parole scroscianti? Attraverso le immagini; i personaggi, sempre più definiti e dettagliati.
Spaziando dal drama alla comedy, tutti i personaggi di un serial writer avranno un doppio lato della medaglia. Sono approfonditi, hanno desideri, ambizioni, hanno un passato ed un lato oscuro. Sono personaggi a 360°, e non superficiali “cartonati” da schermo. Perfino i personaggi di funzioni, come rivela Gilligan parlando di Jess in Breaking Bad, pensato per essere un supporto a Walter White e poi morire a fine della prima stagione, ricopre, man mano che la scrittura va avanti, una valenza tale da fargli assumere una vita propria e mandarlo avanti per il corso di tutte le stagioni.
I personaggi hanno una vita propria, ma soprattutto una funzione fondamentale per la storia; quindi, può accadere che anche la loro morte sia necessaria ai fini della storia. Esempio lampante è Game of Thrones.
David Benioff, sceneggiatore e showrunner con D.B. Weiss di Game of Thrones, spiega che in una serie di questo tipo, la morte di un personaggio è la forza motrice di tutti gli avvenimenti che seguiranno. Nell’adattamento dal romanzo alla serie, alcuni personaggi sono stati portati avanti più di quanto i libri abbiano fatto, altri sono stati approfonditi, altri ancora del tutto eliminati, e poi ci sono quelli che condividono lo stesso destino degli omonimi. E se questo per un autore di romanzi è un’incredibile sofferenza, per un serial writer è un processo necessario. Senza carburante una macchina non cammina, lo stesso vale per una storia. Sono le azioni che mandano avanti la storia, e le azioni, a loro volta, vengono compiute dai personaggi. È tutta una questione di scelte. E da ogni scelta ne deriva una conseguenza, positiva o negativa che sia. Tutto questo in Game of Thrones viene più che sottolineato, a tal punto che lo stesso Benioff in fase di scrittura non si concentra mai sulla definizione di Bene o Male; ogni personaggio di GoT, positivo o negativo che sia, agisce in base ad un interesse che lo porta a fare delle scelte, spesso molto cruente. E per quanto possa sorprendere che la bella e buona Daenerys possa optare per uno sterminio di massa, quella non è altro che la conseguenza di una scelta per un fine più grande, metafora di ciò che tutti facciamo al’interno della vita di ogni giorno.
Questa capacità di operare delle scelte, così come per ogni persona, a fini della storia e del personaggio, è dettata da una grande capacità di elasticità di pensiero, fondamentale per un serial writers.
“Se pensi troppo, finisci per imporre rigidità al tuo lavoro creativo.”
Afferma Eric Kaplan, dialoghista per il nerd più irriverente e insopportabilmente adorabile Sheldon Cooper che ha iniziato la sua carriera scrivendo per il David Letterman Show.
“Mi ha dato idea della velocità, mi ha fatto diventare veloce” spiega Kaplan, parlando della sua esperienza con Letterman, applicando successivamente a The Big Bang Theory e Futuruma. Kaplan non è, però, l’unico a rimarcare l’importanza della velocità del processo creativo di una serie televisiva. Gilligan e Benioff, autori di serie ben più complesse ed articolate rispetto a TBBT, ribadiscono l’essenzialità di riuscire a stare al passo coi tempi della televisione. Ed è qui che forse si evidenzia il punto di maggior differenziazione tra sceneggiatore e serial writers. Nel maggioranza dei casi la sceneggiatura di un film, come anche testimonia la regista e sceneggiatrice polacca Agnieszka Holland (The Wire, The Killing), dal suo stato embrionale fino all’ultima stesura, richieda anche uno o due anni; nel caso della serie televisiva, un progetto di serie va redatto in un mese, mentre un episodio in meno di una settimana. Per questo motivo la serie ha bisogno di più mani e più menti: le writer’s room. All’interno di essa il corpo di sceneggiatori, capeggiato dallo showrunner o dal creatore di serie, riflette, analizza, studia gli elementi di un’intera stagione; successivamente procede all’ideazione dell’episodio. Secondo Gilligan, ma tutto è relativo in base a metodo lavorativo e team, l’ideazione richiede quattro giorni. La fase di prima stesura è affidata ad un unico sceneggiatore, in modo da dare tempo al team di pensare all’episodio successivo. Nuovamente in gruppo si passa alla revisione della stesura, operare i cambiamenti e le rifiniture, mentre qualcun altro è già all’opera per la stesura dell’episodio successivo. Questo è il metodo più comune all’interno del drama. Quando si tratta di comedy, come nel caso di The Big Bang Theory, ci si divide i compiti in base ai personaggi. La trama viene definita nel complesso del team, e successivamente ogni membro da voce ad un personaggio. A volte vengono coinvolti gli attori stessi in una prima lettura, adattando il tutto meglio all’esigenze del personaggio in questione, per poi procedere con i cambiamenti.
Il lavoro di scrittura, inoltre, viaggia di pari passo, se non qualche manciata di “metri” più avanti, a quello della regia. I serial writers, in particolar modo quelli che sono anche produttori e/o registi dell’episodio stesso, sono chiamati anche a cambiare qualcosa sul momento, adattandolo all’esigenze della situazione.
Tutto questo è un discorso che, purtroppo, è ancora troppo lontano dalla realtà europee, in particolar modo quella italiana. Sebbene negli ultimi anni serie come Romanzo Criminale e Gomorra, ideati entrambi da Stefano Sollima, abbiano portato oltre oceano la creatività italiana, si tende a prediligere ancora un tipo di lavoro molto tradizionale e poco innovativo. La maggior parte degli sceneggiatori sopracitati sono personalità poliedriche; non solo autori, ma anche produttori, showrunner, creatori, registi, circondati da un team capace di adattarsi ad uno stile, mettersi al servizio di una storia o di un’esigenza. Decisamente più vicini agli americani ci sono gli autori inglesi, come per esempio Russell T. Davis (Doctor Who, Queer as Folk, Cucumber, Banana, Tofu) o Charlie Brooker (Death Set, Black Mirror), e negli ultimi tempi le acque si stanno smuovendo per qualche altro paese europeo; per esempio la Francia con Les Revenants di Fabrice Gobert o la scandinavia con il suo Forbrydelsen–The Killing (divenuto di più valenza mediatica dopo il remake americano per mano di FOX).
Compatrioti o meno, i serial writers contemporanei hanno riscritto, sotto ogni fronte, il destino della lunga e piccola serializzazione. Inutile pensare a fare un paragone con il cinema. La serie ed il cinema, come abbiamo appena visto, anche dal punto della scrittura, sono prodotti che possono coesistere, attingendo l’uno dall’altro. E fino quando ci saranno autori del genere, possiamo essere sicuri di non rimanere delusi su nessuno di questi due fronti.