A Blast: recensione
Ci si accorge, in modo del tutto immediato, che A Blast è uno di quei film che può essere visionato con un occhio solo o meglio ad intermittenza, con la giusta disattenzione. Syllas Tzoumerkas dirige la pellicola, in uscita in Italia il 27 Agosto, e la struttura affinchè non sia il modo di vederla a comportarne una facile fruibilità, ma costruendola come un’insegna lampeggiante, frazionata da una parte ben visibile quasi tangibile che paralizza, abbaglia con toni inaspettati e fugaci, e una parte oscura. La parte oscura è per definizione una res assente.
A Blast – il paradigma di una vita ridicola
Il regista decide di gettare la sua ombra su una famiglia greca, dandoci la sensazione di essere su un palcoscenico assieme a Carmelo Bene, composta da Maria e Gogo, sorelle dissonanti, e i genitori, figure controverse e sorprendenti. Tavoli pieni di cibo, dispense che traboccano benessere, tende delicate e proprietà in campagna. Ritratto di una famiglia medio borghese completo, senza fronzoli. Il dramma, ahimè incompleto e abbandonato sullo sfondo è quello della recessione, dello strozzamento fiscale, della peste nera economica che ha mietuto vittime di ogni genere e che andrà ad intaccare l’impresa di famiglia.
Tema che sullo sfondo ci rimarrà, non contribuendo a far scattare la molla filmica che ne segni il contrasto, lo slancio o la caduta. A contribuire di ciò è lei, Maria, una presenza spersonalizzante: aspirante figlia, aspirante madre, aspirante parvenza di quel grottesco essere denominato donna moderna, chiamato ad onorare un ruolo e ad oltraggiarne un altro. La pellicola procede unicamente bene grazie a lei, che cerca di rimanere a galla tra le assenze lavorative del marito, le violenze psicologiche familiari, tra cui c’è da sottolineare l’oscenità ben strutturata della sorella, Gogo, unico personaggio coerente e con una linea precisa: l’antagonista, che in realtà non ha le capacità di poterlo essere sul serio, un essere negativo che calamita tutto ciò che è guasto, corrotto.
È tutto ciò che le circonda ad essere storto ed è lei a piegarsi di conseguenza. Tzoumerkas pugnala a gran voce la dissolutezza delle convinzioni morali, del vivere nel raziocinio e guarda con lungimiranza all’istinto, all’impazienza del sobrio che ha avuto per troppo tempo le labbra secche. In questo marasma illogico e decaduto cresce con convinzione l’oscura monade, quella parte contraddittoria uguale solo a se stessa, un filo spinato invisibile ma presente nella mente dello spettatore, che assume una forma diversa a seconda degli occhi di chi guarda. A questo punto c’è solo da essere onesti: non esiste alcuna finestra, balcone o filtro che racconti la crisi greca, ma solo un cenno sbiadito che dura il tempo di una raschiata di gola.
Dopotutto le svariate nomine quali Festival di Locarno o Sarajevo Film Festival, non hanno potuto molto sull’infrangersi del tema e la sua concreta esposizione all’interno del film, poichè è innegabile che si tratti di un lungometraggio spartano, allusioni a parte, e sviscerato pedissequamente. Eppure riesce a mantenere quei toni e quelle rigidità che somigliano molto ad una lettera di presentazione, senza sbavature e segni di cancellature prima e che poi, nel ripiegarsi delle scene, vengono immancabili alla luce.