RomaFF13 – Se la strada potesse parlare: recensione
Se la strada potesse parlare è una storia amara in cui Jenkins non teme l'estetica di un look forse un po' patinato pur di ricercare la bellezza e la luce sui volti e sugli sguardi dei suoi personaggi.
Se solo potessero parlare, se potessero vedere tutto quel che accade, cosa potrebbero raccontare le strade di Harlem? Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk) è un film di Barry Jenkins presentato in concorso alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, ambientato nella Manhattan degli anni Settanta.
Nel quartiere di Harlem, Alonzo (Stephan James), per gli amici “Fonny”, e Tish (KiKi Layne) cercano di costruire un futuro insieme. Insieme hanno passato la propria infanzia, insieme sono cresciuti e insieme si ritrovano, ora, ad affrontare il primo grosso ostacolo: Fonny viene arrestato per un’accusa di stupro ai danni di una giovane donna portoricana, che ora è tornata nella sua terra natale. Tish e la sua famiglia, insieme ai genitori di Fonny, tenteranno in ogni modo di dimostrare che il ragazzo non è colpevole, ma Tish dovrà anche vedersela, da sola, con il bambino che la gravidanza appena scoperta le porterà.
Se la strada potesse parlare: gli anni Settanta e il razzismo negli Stati Uniti
Beale street, rivela in fuori campo la bellissima voce di KiKi Layne, è una strada che tutti conoscono; è un punto focale, la via su cui chiunque viva in un certo quartiere è passato almeno una volta nella sua vita. Tutti, ad Harlem, conoscono Beale Street. Un po’ come dire che tutti, ad Harlem, sanno come vanno le cose: violenze, furti, stupri, pestaggi, sono cose che si sono viste fin troppe volte, in questa città. Fra questi crimini spicca l’essere neri, un misfatto con cui si nasce e si deve fare i conti da sempre, e per sempre. Lo sa bene Fonny, protagonista del film di Jenkins, su cui l’accusa grava come una condanna a morte certa e inaggirabile. L’ambientazione, gli anni settanta delle tensioni a seguito dell’abolizione delle leggi razziali e della pena di morte ancora ampiamente diffusa, è fondamentale ai fini del dramma: è la decade delle libertà espressive rivendicate e sbandierate in ogni arte, eccetto che nel mondo reale.
Se la strada potesse parlare: la battaglia individuale come specchio di quella collettiva
Eppure non sarebbe del tutto erroneo definire Se la strada potesse parlare, tratto dalle pagine di James Baldwin, un’opera che narra della battaglia solitaria di ogni individuo come riflesso di quella che riguarda una comunità intera. In poche situazioni, giustappunto, è possibile assistere a un raffronto fra il mondo bianco e quello della collettività afroamericana: accade nella tesa sequenza in cui un agente di polizia si ritrova chiamato in causa quando Fonny aggredisce un molestatore a seguito di una provocazione, oppure quando la donna portoricana fugge, in preda a una crisi, dalla madre di Tish che cerca un conciliatorio confronto. Quasi a confermare, quest’ultima sequenza, una minoranza basato su un concetto di pregiudizio vincolato principalmente all’essere neri, e quanto neri? Più neri di altre minoranze ancora, o meno vicini all’essere bianchi.
L’amore in Se la strada potesse parlare
Barry Jenkins si muove con agile delicatezza sui binari della critica sociale: è palpabile il pericolo dietro l’angolo, quello del valore di una parola al di sopra delle azioni, e viene costantemente tenuto a fuoco il mondo interiore e intimo della sua protagonista femminile, a contatto solo con la sua famiglia. Ed ecco che i problemi si rivelano, in fin dei conti, non così dissimili da quelli affrontati dai bianchi: bisogna pensare al proprio futuro, costruirselo, cercare e ottenere un lavoro, la propria stabilità. Se Detroit, presentato nello stesso festival un anno prima, aveva trattato la medesima tematica con occhio politico, inquadrando il particolare all’interno di un episodio simbolo della violenta spinta razzista negli Stati Uniti di fine anni ’60, Barry Jenkins predilige la soffusa tenerezza di una storia d’amore che viene ostacolata dalla stessa questione razziale che è a cuore a Kathryn Bigelow. Nonostante uno sguardo così differente tra i due autori, può essere comunque tracciata una linea comune alle due opere, che si chiudono entrambe su un interrogativo di fondamentale importanza: quanto a fondo può una questione socio-politica addentrarsi nella sfera personale delle inclinazioni, delle aspirazioni e dei sentimenti di un individuo?
Se la strada potesse parlare, contrariamente a quanto non appaia, è un’opera per niente consolatoria, quasi amara: l’happy ending è solo teorico, possibile solo grazie al compromesso, e i protagonisti porteranno per sempre le cicatrici della loro condizione sociale allo stesso modo di un’intera comunità che subirà sempre sulla propria pelle le conseguenze degli (ultimi?) strascichi della propria centenaria segregazione. Jenkins non teme l’estetica di un look forse un po’ patinato, al di là dell’indubbia eleganza registica, per andare alla ricerca della bellezza e della luce che discende sui volti e sugli sguardi dei suoi uomini e delle sue donne, mai imbruttiti dalla sofferenza, sempre indiscussi protagonisti dell’inquadratura e del dramma. Come se, per raccontare ciò che è brutto, non fosse poi così necessario abbandonare il bello.
Se la strada potesse parlare, con KiKi Layne e Stephan James, è in uscita nelle sale cinematografiche il 14 febbraio 2019 con Lucky Red.
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