RomaFF13 – Jan Palach: recensione del film
Jan Palach riporta la vita e il gesto di protesta del giovane attivista, ma lo fa senza dare il giusto peso e la giusta emozione alla causa del protagonista.
Ci sono gesti rivoluzionari che il cinema ha voglia di riportare sul grande schermo. C’è chi sceglie di drammatizzarli colmando la narrazione di impulsi emotivi, chi rimaneggia la realtà per renderla più fruibile attraverso il passaggio delle immagini, oppure coloro che scelgono tutt’altra scuola di pensiero, volendo descrivere con minuziosa precisione quello che è avvenuto, senza aggiunte narrative o arricchimenti che varrebbero solo come vezzo. Ad appartenere a questa seconda tipologia di racconto è il film di Robert Sedlácek sul patriota cecoslovacco Jan Palach, che con il suo gesto estremo ha voluto contribuire allo scuotimento delle coscienze per opporsi all’occupazione del suo Paese.
Ogni uomo ha i propri ideali, quelli di Jan Palach (Michael Balcar) sono in linea con quelli derivati dalla stagione riformista che si è attuata a Praga e nell’intera nazione. Ma l’aria di libertà che i cittadini hanno provato andrà presto svanendo con l’arrivo delle truppe dell’Unione Sovietica e aggravata dal controllo esteso su ogni mezzo di comunicazione. Un mancato rispetto umano ed etico davanti a cui Jan non è disposto a sottomettersi, scegliendo di accendere la fiamma della rivoluzione.
Jan Palach – La grande mancanza del film
Tutti conoscono l’impresa di Jan Palach. E, se non è così, tutti dovrebbero conoscerla. Sono giorni di repressione quelli di cui ci parla Sedlácek e che il giovane attivista ha vissuto, una storia non è poi così lontana dalla nostra contemporaneità. Ma, escludendo la consapevolezza o meno di cosa andrà a compiere il ragazzo, è il film che dà chiara idea di come andrà a finire il suo eroe e questa è la sua più grande mancanza.
Sapendo già come chiudere il proprio percorso, il film Jan Palach si adagia nel raccontare con lunghezza e calma la vita che precede l’atto del personaggio reale, non sospingendolo però a quell’istante in maniera graduale e non montando quindi il finale con la dose di tensione più adeguata, ma lasciandolo avvenire nello stesso modo con cui si è succeduta nell’opera l’esistenza del giovane: con tanta pacatezza. Sembra infatti imperturbabile la presunta angoscia del ragazzo – che noi sappiamo vera perché è storia accaduta -, che lo convince a ricoprirsi di benzina e darsi poi fuoco per protesta. Una placidità che non si carica mai della dovuta frustrazione per la censura subita e il controllo a cui si tenta di sfuggire, ma si stabilizza sulla frequenza di un tono bonario che non decide mai di decollare.
Jan Palach – La lunga preparazione al finale
Soltanto la lunga preparazione all’azione in sé racchiude una tragicità – sempre, comunque, molto adagiata – che è esente dal resto del film. Mostrare il tempo che serve per confermare le proprie intenzioni, avvicendarsi per scrivere al meglio i propri saluti, con una vestizione che diventa sacrale nel suo compiersi in ogni parte e che finirà, per concludersi, in cenere. Riservare però ad un unica sequenza tutta la portata dolorosa di una situazione come l’occupazione forzata delle proprie città non può sollevare di molto l’opera tutta, pur se nel momento in cui si chiude il film l’immagine di Palach carbonizzato non può far altro se non rimanere fissa negli occhi e nella mente.
Nessuna colpa è da attribuire all’attore protagonista Michael Balcar, che segue evidentemente le indicazione del suo regista e della sceneggiatura scritta da Eva Kantůrková, che lo trattengono anche quando sarebbe pronto a scattare, ma si attiene compitamente agli ordini impartiti. Se la popolazione cecoslovacca avrebbe dovuto fare qualcosa per reagire alle ingiustizie inflitte, anche il film avrebbe dovuto agire nella medesima maniera, non rendendo così la degna riconoscenza alle motivazioni di una persona considerata un martire, ma piuttosto riservandole alla sua semplice vita vissuta prima dell’evento.