Intervista a Gipi su Il ragazzo più felice del mondo: “La realtà mi ha fatto da aiuto regista”
La nostra intervista a Gipi sul suo ultimo film, Il ragazzo più felice del mondo, ma anche sulla sua idea di cinema, sulla nascita delle sue opere e sui progetti futuri.
Il ragazzo più felice del mondo, presentato alla 75ª Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, vede Gipi (Gian Alfonso Pacinotti) alla regia del suo secondo lungometraggio. Tra le tante tappe del tour per la promozione del film, l’autore pisano è stato ospite presso il Cinéma Sala Pegasus di Spoleto insieme all’attore Gero Arnone, coprotagonista e cosceneggiatore. Grazie al prezioso aiuto di quest’ultimo siamo riusciti a ritagliarci un po’ di tempo con il fumettista e a farci raccontare qualcosa di più sul suo rapporto con il mondo del cinema e, in particolare, su Il ragazzo più felice del mondo.
Gipi fa da regista e protagonista di un’opera che racconta la ricerca (vera) di 4 amici (veri) per trovare un fan del fumetto che da anni scrive la stessa lettera a tutti i suoi autori preferiti, spacciandosi per un quindicenne e chiedendo sempre un loro autografo. Il ritrovamento di una di queste lettere a 20 anni dalla prima fa scattare nella testa di Gipi l’idea ossessiva di rintracciarlo. Questo è il motore di un viaggio che supera il linguaggio documentaristico e quello della fiction, dando vita a un ibrido brillante, accattivante e originale. Un’opera totalmente autoriale, l’ennesima del fumettista, e una boccata d’aria nel panorama nostrano.
Gipi e l’elaborazione delle sue opere: prima arriva il mezzo, poi la forma
Vista la formazione a tutto tondo di Gipi, capace di relazionarsi nel tempo con diversi format (giornalistico, filmico, musicale e naturalmente fumettistico), gli abbiamo chiesto innanzitutto come fa a decidere quando una storia è più adatta ad un mezzo piuttosto che un altro.
“Non lo decido.” – ha risposto sorridendo – “Di solito quando ho un’idea per una storia mi arriva già con la scelta dello strumento ben chiara in testa. Con il mezzo già ben rappresentato, magari la forma arriva dopo, ma il mezzo c’è già dal principio. Per esempio non ho mai pensato che Il ragazzo più felice del mondo potesse diventare qualcosa che non fosse un film! In realtà penso non mi sia mai successo di avere in mente una via di mezzo, un’idea a metà oppure partire con uno strumento e poi cambiarlo. Le volte che ho avuto dubbi semplicemente la storia non è andata.
È come un sapore in bocca, che mi dice se sarà solo scritta, se sarà a fumetti o al cinema. Poi soprattutto nei fumetti la forma arriva fin dalla prima tavola che faccio, posso fare anche mille studi prima per capire quale sia la forma migliore, ma arriva sempre in quella fase del lavoro. È una cosa molto strana… Poi magari mi posso anche fermare, dire ‘Capiamo meglio questo personaggio oppure questa ambientazione’, ma la tecnica, il tratto, arriva sempre alla prima pagina. Per il cinema, di cui non sono così esperto come nel fumetto, la cosa diventa più complessa e mi pongo come uno studente, mi rapporto in maniera più umile.”
Anche se nel tuo primo film, L’ultimo terrestre, è sembrato te la cavassi molto bene anche dietro la camera.
“Per L’ultimo terrestre la cosa era diversa: era il mio primo film. Sentivo molto la pressione e la responsabilità di dirigere persone molto più esperte di me e dover conquistare la loro stima, la loro fiducia. Dovevo essere deciso, non potevo permettermi di mostrarmi insicuro. Per questo, dopo aver studiato molto ed essermi preparato meglio che potevo, decisi che il film doveva essere classico sia nella forma che nel contenuto: poca camera a mano, più immagini fisse, dialoghi non realistici, a volte surreali o monumentali, volutamente “scritti”. E per quanto voglia bene a quel film, quando lo guardo non riesco a sentirlo pienamente mio.”
E come mai?
“Perché l’idea era principalmente quella di fare bene il lavoro. Chiudere le giornate portando il programma a casa, non sforare con i tempi, ottenere il rispetto della troupe e degli attori ecc.. Tutti fattori che hanno fatto si che io avessi sempre il freno tirato. Mi dicevo continuamente: ‘È il primo film e devi imparare. La macchina del cinema è grande e può schiacciare chiunque, la cosa più importante è fare il lavoro bene.’ L’unica cosa che mi sono concesso è un piano sequenza per una scena e anche in quel caso tutta la troupe mi consigliava di spezzarlo, di girare almeno un primo piano. Però a me piaceva l’idea di ineluttabilità dell’azione, l’idea che il protagonista non potesse far nulla per fermare gli eventi e se si fosse spezzato si sarebbe persa la sensazione. Ecco in quel caso mi sono concesso qualcosa di personale, dandogli un taglio più mio.”
Quindi è per questo che hai aspettato tanto per tornare al cinema? L’ultimo terrestre è addirittura del 2011 se non sbaglio.
“Durante questo tempo in realtà ho fatto altre due cose. Due mediometraggi che s’intitolano Smettere di fumare fumando e WOW.”
Che tra l’altro non si trovano…
“No infatti non si possono trovare, li ho girati per me. Ti spiego, quando uscì L’ultimo terrestre stetti molto male perché non andò bene in sala e io, naturalmente, mi addossai tutta la colpa. Il regista ero io e la colpa era mia, punto. Allora mi dissi che dovevo trovare un’altra forma, un altro modo per raccontare le mie storie attraverso il cinema. Finii così con il fare Smettere di fumare fumando, un lavoro molto più sperimentale… talmente tanto che decisi di mandarlo a Procacci per farglielo vedere e chiedergli un’opinione. E lui, non dicendomi niente, lo mandò direttamente al Torino film festival! Mi ricordo che un giorno ero a casa e mi chiamò Amelio, il direttore di quella edizione del festival, facendomi un sacco di complimenti per il film e io neanche sapevo che l’avessero mandato! Quando chiesi spiegazioni a Domenico (Procacci), mi disse che se lo accettavano bene altrimenti non avrei potuto rimanerci male perché tanto non sapevo niente. Fatto sta che mi ritrovai alla proiezione a vedere questa roba assolutamente artigianale, in più era la prima volta che mi vedevo recitare e mi fece un bruttissimo effetto: vedermi su schermo grosso, sottoposto alla critica di tutti i cinefili… non avevo ancora la struttura per reggerlo. Questo shock, unito al fatto che il film fosse assolutamente artigianale, con l’assenza di liberatorie, ecc… Mi ha fatto prendere la decisione di tenermelo in casa.”
Il riscontro però come fu lì a Torino?
“Mah… sembrava buono. Però tu devi pensare che il film era fatto così: una sera metto una 5D in cucina e una gopro sul comodino accanto al letto al posto delle sigarette, cosicché, svegliatomi la mattina dopo, invece di prendere le sigarette, potessi prendere la macchina da presa e cominciare a filmarmi sin da subito. E mi filmo quasi di continuo, tutto il giorno, senza fumare, finché comincio a impazzire. A fine giornata scarico tutto, faccio le musiche, monto, faccio la voice over e chiudo. La regola era: ogni giorno finisci il lavoro su tutto il materiale della giornata e, una volta finito, non la potrai più modificare. Questo secondo me era l’unico modo per dare l’idea del tempo reale che passavo senza fumare.Il giorno 1 ha un taglio molto buffo, ma il 2 comincia ad essere drammatico, c’erano delle parti di voice over che io avrei tolto se non avessi messo quella regola perché erano veramente troppo cariche. Poi il film prosegue finché non si esaurisce, si scarica, svanisce. Perché al decimo giorno io stavo bene, non avevo più nulla da dire.
Comunque mi piacque molto l’idea, ma soprattutto la forma che avevo trovato, ottima per restituire a chi guarda tutto il percorso, senza omissioni: la voce che cambia, la tosse, i mal di testa, i deliri. Poi, dato che ho una malattia abbastanza seria (una di quelle per cui il dottore ti vieta di fumare… ma tu fumi lo stesso), ad un certo punto il film mi porta a riflettere sul perché avessi questo desiderio di morte, questo senso fortissimo di autodistruzione… E da essere un gioco acquisì una chiave molto più seria, molto più personale. Su La mia vita disegnata racconto un episodio di quando avevo 12 anni: ero con mia sorella di 18 e un uomo si introdusse in casa nostra per violentarla. Ecco, nel film io torno in quella casa… non c’ero più stato da allora. E decisi di andare a filmare la finestra dalla quale entrò lui, scoprendo che i nuovi inquilini avevano messo le sbarre. Ne è uscita una scena in cui sono davanti la finestra, mentre la voice over spiega che è da lì che entrò, commentando ‘Sono stati più furbi di noi.’… Non racconto cosa è successo, ma il film acquisisce uno spessore completamente diverso. Sempre tenendo in tante parti un tono molto scanzonato. Ripeto: fu un esperimento fuori di testa.”
Quindi hai con il cinema lo stesso rapporto diretto che hai con i fumetti?
“Si, si! Esattamente! Questo tipo di lavoro è esattamente quello che faccio, o meglio che facevo con i fumetti, perché La terra dei figli è completamente diverso: non ci sono io spiattellato dentro. Quindi è come se al cinema stessi rifacendo lo stesso percorso che ho fatto con il fumetto. Gli stessi passi. Io sono convinto che se dovessi continuare a far cinema arriverò ad un punto in cui non ci sarò più io dentro… E farò roba più distaccata e probabilmente migliore.”
E come e quando è cominciato il tuo rapporto con il cinema?
“Quasi in parallelo con il fumetto. Come racconto in Il ragazzo più felice del mondo, mio padre mi portava a casa delle cineprese Super8, con le quali io mi divertivo a mettere in scena tutto quello che mi passava in testa, da solo o coinvolgendo i miei amici. Mi ricordo che facevo filmati in stop motion con le macchinine e i Big Jim oppure facevo le Candid Camera per strada. Mi inventavo delle cose assurde e mi piaceva tantissimo. All’epoca in realtà volevo entrare in quel mondo, però il fumetto era più accessibile. Mio papà non solo riusciva a portarmi le Super8 solo ogni 2/3 mesi,ma potevo tenerle anche per poco tempo perché dopo un po’ doveva riportarle in negozio dove le rivendeva come nuove. Ma quando me le portava era la gioia per me… Poi man mano mi sono molto appassionato ai fumettisti italiani degli anni 80 come Pazienza, Liberatore, Tamburini, Scozzari e il fumetto finì con l’entrarmi dentro la testa, anche se appena possibile riprendevo a dedicarmi anche al cinema. Pensa che quando si cominciarono a noleggiare le VHS e le telecamere, io appena avevo i soldi ne prendevo una con dei nastri e insieme ai miei amici ricominciavo a mettere in scena le storie che volevo. Ho filmati che vanno dai 18 anni ai 25 per dire.”
Quindi la scelta tra cinema e fumetto fu solo per la differenza del mezzo?
“Beh secondo me si. Io vengo dalla provincia, sono un provinciale, quindi per me il mondo del cinema era inarrivabile. Poi standoci dentro ti accorgi che non è così, non è il mondo di fiaba e lustri che si pensa, ma da fuori per me era quello e ho sempre pensato fosse impossibile accedervi. In più non è che conoscessi nessuno che potesse introdurmi in quel mondo, noi eravamo completamente isolati, non avevamo contatti. Io poi neanche li volevo, c’è anche questo discorso: non avevo ambizione, non ne ho mai avuta. La mia unica ambizione è stata sempre e solo quella di trovare la mia voce, e basta. Anche i fumetti per esempio ho cominciato a pubblicarli perché un altro fumettista, che aprì una casa editrice, venne da me dicendomi: ‘Voglio pubblicare la tua roba!’ E io gli risposi: ‘Ma perché?’, io neanche sapevo esistessero libri a fumetti! Lui mi disse: ‘I libri si fanno, la gente li legge!’ e io: ‘Ma che stai a dì?’ La prima volta che mi trovai a Lucca Comics mi ricordo tutti questi sconosciuti che compravano le copie del mio libro e il solo pensiero che le avrebbero portare a casa loro mi pareva inconcepibile. Fu uno shock.”
Ora come ora nel mondo del cinema, ma a dir la verità già da molto tempo, si usa fare delle trasposizioni di storie raccontate in altri media. Come i libri, ma soprattutto i fumetti, che stanno veramente spopolando. Tu cosa ne pensi di questa tendenza?
“L’errore che si può commettere, soprattutto nel fumetto, è leggerlo e dire: ‘Questo è un film già fatto.’ Ecco, non è mai vero. Mai. La quantità di contenuto che serve ad un film è completamente differente da quella che serve per fare un libro a fumetti. Pensa alla gestione dei tempi e quantità di dialoghi. I dialoghi nel cinema possono non avere limiti e nel fumetto invece si deve sempre cercare la forma più contenuta, la parola più giusta possibile da utilizzare. È una questione di spazi.
Non solo. Nel fumetto non si ha a che fare con la realtà, ma con una rappresentazione della realtà. Io posso farti una vignetta che su un fumetto risulta poetica, ma se la rifai uguale al cinema non sà di niente, perché la realtà se non la modifichi, se non la reinterpreti o la condizioni non ha una potenza sua. Quasi mai. Il disegno in questo senso è magico: nel disegno qualsiasi cosa rappresentata, se fatta con un minimo di maestria, acquista un carico, uno spessore aggiuntivo. Quindi se tu guardi un libro a fumetti e dici: ‘Questo basta metterlo in scena’, stai sicuro che stai per fare un disastro.
Detto questo secondo me quando un regista prende una storia di un altro autore è giusto che reinventi, che faccia sua la storia, che faccia le modifiche che vuole. Poi sarà meglio, sarà peggio, l’importante è che non sia una trasposizione parallela perché è una stupidaggine in termini. Credo sia giusto prendere le suggestioni del primo racconto e reinventarle per trasformarle in elementi di una storia nuova.”
Tu ti rapporti al fumetto in termini, diciamo minimi. Hai la tua penna, il tuo foglio bianco e crei, dando sfogo alla tua libertà creativa. Nel cinema questo non è possibile. Ci sono tantissimi ingranaggi al suo interno, tanti settori che devono cooperare in armonia per raccontare la storia. La regia, la fotografia, la scenografia, il trucco, l’interpretazione, il montaggio, le musiche e via dicendo. Ne Il ragazzo più felice del mondo qual’è stato, se c’è stato, un ingranaggio più importante?
“Probabilmente il montaggio. Perché ho lavorato con Chiara Dainese, una montatrice meravigliosa, che ha capito subito il film e le sue fragilità, riuscendo a dare sempre delle chiavi di lettura efficacissime che hanno comportato modifiche anche grosse. Ci siamo scontrati tanto, persino nei contenuti. Ti dico una cosa sola: io non ho ricevuto una lettera nel 1997 per poi vederne una uguale nel 2017 come nel film, io ne ho ricevute 4. 1997, 2003, 2005 e 2007 e nella prima edizione del film io le raccontavo tutte e 4. Ecco, lei, appena arrivata, ha tolto le ultime 3 lettere. Capisci che è un’operazione pesante, anche violenta se vogliamo. Io mi ero attenuto alla realtà perché ero partito per fare un documentario, ma, appena switchato sulla fiction, lei ha voluto subito fare questa modifica: 2 lettere, una e vent’anni dopo l’altra, dritti verso il punto. Anche Domenico, quando vide il primo montaggio, mi disse di modificare parecchie cose. Pensa che non c’era la mia voice over nella seconda parte del film. Questo perché per me, quando nel film tradisco gli amici, dovevo sparire dalla storia, non avevo più diritto di starci. Domenico vide quella versione e mi disse ‘Ma tu dove sei andato a finire? Ma tu sei il protagonista della storia, non puoi sparire’. E io gli risposi: ‘Come no! Io devo sparire, li ho traditi, non ho più diritto ad essere colui che racconta la storia’, e lui mi disse: ‘Ma falla finita! Uno spettatore si affeziona, si affeziona alla tua voce, segue i tuoi ragionamenti, non puoi andare via’.
In sostanza mi disse nove cose. Io tornai a casa ed ero nero. Poi mi dissi ‘Gianni quanti film hai fatto? Sostanzialmente 1 e ¾. Lui? Quasi un centinaio, magari prova a dargli retta’. E feci un timeline che rinominai ‘Domenico Final Cut’, facendo tutto quello che aveva detto. E quando lo riguardai mi accorsi che aveva ragione su tutto.”
Il ragazzo più felice del mondo? Un segno del destino
Foto di Riccardo Pompili
Perché l’idea di raccontare questa lettera, cosa ci hai visto dentro?
“È la realtà che si è ripresentata. L’ultima lettera l’avevo ricevuta 10 anni prima e ora è tornata a salutarmi. È tutto vero. Cerco negli scatoloni del trasloco e, nell’ultimo che aprii, l’ultima cosa in fondo era proprio la lettera. Io ho cambiato 12 case e piano piano ho finito col perdere tutto quello che avevo, ma quella lettera c’era ancora.
Io non credo ai segni, sono un iper razionalista, ma quella lettera era lì. E io mi son detto che era la realtà che mi stava chiedendo di raccontarla e che se fossi rimasto sulla realtà sarei stato a mio agio. Poi si, è cambiata la storia, ma il cuore rimane comunque vero e l’idea del finale, di non andare dall’autore delle lettere, di non mostrarlo, è stata una scelta morale reale. La realtà mi ha fatto da aiuto regista, oltre al mio bravissimo vero aiuto regista, lei era la mia spalla, il pilota che mi diceva diandare avanti a raccontare, perché l’autore delle lettere esisteva davvero, lui ha commosso davvero delle persone e lui le ha deluse davvero quando si è rivelato essere tutto falso. Io ho sempre bisogno di un motivo altro rispetto all’intrattenimento puro. Anche nel fumetto è così, ma lì sono bisogni interiori. Nel cinema non ho quel coraggio, non ancora almeno.”
Quindi anche la scelta di inserire nel cast persone con le quali hai un rapporto anche al di fuori del lavoro, un rapporto di amicizia vero, è stata una scelta per rimanere sulla realtà? Per trasmettere una totale autenticità?
“Si, assolutamente si.”
Invece la scelta di prendere la telecamera e partire con un gruppo di ragazzi come troupe da dove è nata?
“È nata così: ad un certo punto mia moglie mi ha detto che non ne poteva più. Parlavo solo di questa idea che avevo in testa (in realtà lo faccio molto spesso e lei spesso se ne lamenta), divento veramente insopportabile perché quando io mi fisso voglio che tutti siano fissati come me. Fatto sta che un giorno lei pensò ad un amico che abbiamo in comune, Francesco Fanuele, un ragazzo di 25 anni uscito dal Centro Sperimentale, e mi consigliò di parlare con lui della mia idea, visto che a Roma non conoscevo nessuno per girare. Così ci incontrammo ad un bar e gli parlai del progetto. Lui ascoltò la storia e mi disse che il giorno dopo avrebbe chiamato Sara, l’organizzatrice, e che, tempo una settimana, avrei avuto la troupe. E che dire… mi fece incontrare i suoi amici e colleghi usciti dallo Sperimentale e io li adorai sin da subito. La situazione che si era venuta a creare era perfetta perché con quei presupposti potevo muovermi come volevo. Io non volevo fare la trafila, portare la sceneggiatura alle produzioni, ecc… Io volevo essere libero! Anche di sbagliare per carità. Ma farlo da solo! Non volevo fondi ministeriali, non volevo nulla, mi volevo rovinare e basta.”
Tu nel film dici dei fumettisti che “una critica li può distruggere e un complimento li può far star bene, anche se solo per poco.” Questa è una tua cosa personale?
“Si, questa è una mia cosa molto personale. Però se avessi pensato fosse solo una cosa mia non l’avrei messa nel film. Io penso che viviamo in una società dominata dal narcisismo, dove moltissime persone chiedono apprezzamento e amore a degli sconosciuti anche solo mettendo la foto della loro colazione sui social. Ho sentito il mio male come un male epocale e dunque ho pensato valesse la pena raccontarlo. Ho raccontato tanto del mio mondo interiore, ma non l’avrei mai fatto se non avessi pensato che potesse essere uno specchio per gli altri. Io sono interessato a parlare di cose più grandi, più generali, usando me come pupazzo a cui farle accadere. Perché ho gli orecchioni, perché davanti alla telecamera sono buffo e posso demolirmi liberamente. Anche in questo film non mi faccio mai complimenti. Tante volte neanche io vorrei essere me.”
Progetti futuri?
“Ho un libro a fumetti iniziato, sono a pagina 16, una storia che mi piace molto, ma non so se lo porterò avanti. Ho un paio di cose che sto scrivendo e che mi piacerebbe fare al cinema… Ma prima devo vedere cosa succede con questo film… perché anche se in queste proiezioni a cui partecipo trovo tanto affetto, tanto interesse e tanto calore, il discorso generale rimane che il cinema è morto. Al cinema non ci va più nessuno. E in effetti se non siamo presenti noi, io o Gero o i ragazzi del cast, alle presentazioni non ci va nessuno. Noi riempiamo sempre le sale, ma le riempiamo perché ci andiamo con il corpo. E, per carità, questo può essere lusinghiero se lo vedi da un lato, ma può essere molto triste se lo vedi da un altro.
Secondo me il bisogno viscerale di questo periodo storico di identificazione con l’autore non è che lasci conseguenze così tanto luminose. Io sono riuscito a centuplicare le vendite con una sola intervista alle Invasioni Barbariche dalla Bignardi. Cioè solo quando c’ho messo la ‘faccia di merda’! Esporsi porta lettori e io non lo faccio strategicamente perché mi peserebbe, lo faccio perché è il mio carattere. Però il fatto che si vive in una società in cui le persone hanno questo bisogno di riconoscere l’autore non è positivo. Sarebbe bello riuscire a farsi valere solo con il proprio lavoro e farsi riconoscere lì dentro.”