TFF36 – Nervous Translation: recensione
Nervous Translation è la solitudine che si imprime tutta nella vita e nella casa della piccola Yael e che pervade anche l'intera pellicola.
Nervous Translation è la solitudine amplificata a misura di bambina. Dimensione che, nonostante le misure, risuona con maggiore dolore tra le mura di una casa dove è la mancanza a riempire tutte le stanze, a occupare il tempo della giornata, a parlare tramite i costanti silenzi o, per distrarsi, attraverso la ripetizione di una voce ascoltata milioni di volte attaccati ad una cassa. Un’assenza che nessun frastuono, nessuna visita, nessun’altra persona riesce a colmare. Giusto forse l’acqua, che spazza via qualsiasi forma di tristezza, trascinando anche gli angoli isolati di una casa che, col trascorrere del tempo, è rimasta sempre più vuota.
Yael (Jana Agoncillo) ha otto anni, una cucina in miniatura con cui prepara diversi pasti e uno stereo in cui ascolta le cassette ricevute da lei o dalla propria madre e che risuonano della voce di suo padre. Un uomo lontano, in Arabia Saudita, di cui Yael impara a memoria le parole e tenta di riviverle sull’istante con un amico telefonico. È tutto ciò che ha del genitore. È tutto ciò che può avere dalla vita. Un’esistenza tra gioco, soap opera e pubblicità alla televisione. E quella voce che costantemente le parla, anche quando ripete solo le stesse parole.
Nervous Translation – La costante assenza del film di Shireen Seno
La privazione di una figura familiare in Nervous Translation è la natura principale del nuovo film della regista giapponese Shireen Seno. Scritto e diretto dalla giovane cineasta, supportato dal lavoro della fotografia di ben tre direttori – Albert Banzon, Jippy Pascua e Dennese Victoria -, l’opera incentrata sulla bambina Yael e la sua vicinanza con la figura paterna è di un’insistenza che ribolle dall’interno. Ripetizione, ripetizione, ripetizione. Yael rivive i nastri spediti dal padre. E così si svolge poi la sua vita, in connessione con la costruzione del film.
Una condizione di prigionia solitaria che viene ribadita con frequenza nella pellicola di Shireen Seno. L’occhio della macchina da presa si fa strumento dell’opera per notare le camere sgombre di una casa ridotta all’essenziale, abitata da una bambina troppo piccola per comprendere le situazioni dei grandi e da una madre troppo provata dalla lontananza del partner da poter reagire con adeguato amore. E così l’atmosfera è costante. Disillusa se si guarda ad una donna molto più distante che affettuosa o comprensiva, e mossa dal dispiacere nell’osservare la bambina continuare a mandare indietro una registrazione che le testimoni la presenza, anche se molto, molto lontana, del proprio padre.
Nervous Translation – Il vuoto nella casa, che non trova equivalente emotivo
La scomparsa del nucleo familiare per raccontare il dispiacere di un pezzo che rimane vagante, influendo sulle condizioni vitali del restante cerchio parentale e lasciando le conseguenze a coloro che rimangono. Un’assenza portata con costanza e che diventa, di riflesso, l’assenza prima anche dello spettatore, che ne coglie dal principio il dolore e la confusione, ma che portata avanti non mantiene elevata la commozione e, insieme, l’attenzione per tutto il proseguire del film. Una situazione che, essendo insopportabile per le protagoniste, a sua volta sa diventare insopportabile per il pubblico, che dopo la comprensione verso la quotidianità delle due non riesce a trovare un equivalente di quello stato d’animo delle protagonista sul proprio piano emotivo.
Un sentimento principale che viene espresso con efficacia, ma non sa trovare sostegno per tutti i punti della pellicola, scaturendo una piattezza generale e lasciando quasi le protagoniste in balia di se stesse. Senza la necessaria voglia di veder riempito quel vuoto che le ha accompagnate e che, probabilmente, le accompagnerà ancora per tanto tempo.