Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la spiegazione del finale del film
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che squarcia e distrugge, che urla addosso una storia che non si dovrebbe mai ascoltare.
Tutto incomincia col dialogo muto tra una donna e tre grandi pannelli, inizia tutto da lì, da quello sguardo d’intesa che stringe lei e quei grandi manifesti in un pietoso e tenace sodalizio. Questo è l’incipit di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), il meraviglioso film diretto da Martin McDonagh che è valso a Frances McDormand, grazie alla sua Mildred Hayes, il premio Oscar come attrice protagonista (ma è stato premiato anche Sam Rockwell come attore non protagonista per il suo Jason Dixon).
Frances McDormand porta sullo schermo una storia dolente e complessa, straziante e tremenda, la storia di una madre che vuole giustizia per la figlia, Angela Hayes, uccisa e stuprata, di tre manifesti usati come veicolo di un messaggio per attaccare la polizia – primo tra tutti lo sceriffo Bill Willoughby (uno strepitoso Woody Harrelson) – che non vuole e non riesce a mettere le mani sul colpevole. Lungo tutta la pellicola, che funziona come le grandi tragedia greche, Mildred non si ferma, vive per vendicarsi, per rompere il silenzio, per denunciare l’indolenza della polizia, per smuovere le coscienze per mezzo di quei “grandi pezzi di carta” color rosso fuoco che diventano atto politico nel senso più profondo e puro.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri: Mildred e il suo dolore
Mildred è una madre addolorata, distrutta per la perdita ma è anche e soprattutto una donna incontenibile, forte proprio alla luce della sua disperazione che la fa andare avanti senza nessun freno. Come un caterpillar va addosso a tutto ciò che si trova davanti, poco importa che si tratti di persone o cose, di istituzioni o un’intera società. Tra sensi di colpa e ricordi, lei rappresenta una figura femminile nuova nel cinema – è chiaro che il maremoto causato dal caso Weistein abbia causato e sia stato conseguenza di un sentire differente da parte del mondo hollywoodiano – diversa dalle altre a cui siamo abituati, è una guerriera che si arma contro tutto ciò che non va, è ingiusto, non funziona.
La donna, mentre fa scrivere a lettere cubitali, su sfondo rosso, una chiara provocazione per chi dovrebbe difendere il cittadino e cercare il colpevole, mentre protegge i manifesti dalle fiamme, mentre fa esplodere la centrale di polizia, è indifferente all’opinione degli altri, lavora per uno scopo più alto: trovare chi ha stuprato e ucciso sua figlia. Lei è furiosa nel suo lacerante inferno, pugnalata a morte ma ancora viva, è una combattente che ha paura però va avanti perché c’è qualcosa di più importante per cui lottare.
Mildred è diversa da tutti i suoi concittadini che danno ragione a chi ha un ruolo sociale – il poliziotto, il prete -, che sono dalla parte di chi ha la divisa, che si stringono accanto a Willoughby perché non poteva fare altro, ci sono mille altre priorità a cui badare. Tre manifesti a Ebbing, Missouri si costruisce alla maniera di un poema asciutto ma talmente struggente da far male, muove la sua eroina come in una tragedia greca, Antigone moderna che non cede alla legge della città, anima dannata dantesca che sconta, ma lei in terra, la sua pena, costretta a andare alla ricerca del colpevole, trascinandosi, ricordandosi in ogni istante di quel pesante fardello di cui non ci si può e non ci deve dimenticare.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri: un moto che si spezza grazie a tre lettere
Tre manifesti è infatti un canto di morte, un grido di rabbia ma anche, e perfino, una poesia d’amore, l’amore di una madre verso la figlia e di uno sceriffo malato verso tutti coloro che lo circondano.
“Stuprata mentre moriva / E ancora nessun arresto / Come mai, sceriffo Willoughby?” questo è il messaggio che giganteggia sulla città, che rimbomba nel paese e questo grazie a Mildred. Queste sono le parole che la donna fa esplodere di fronte agli occhi di chi non vorrebbe vedere e che preferisce non sapere. In questo suo percorso inizia a conoscere meglio il suo “nemico”, quello sceriffo che dovrebbe aiutarla ma non lo fa o meglio inizia a farlo dopo la morte, dopo il suicidio dell’uomo in divisa che scrive un gruppo di lettere che smuovono montagne. È Willoughby infatti il cuore morbido della storia, lui con quelle lettere/testamento scritte prima di farla finita – era malato da tempo e tutta la comunità ne era a conoscenza ma anche in questo caso era meglio fare finta di niente -, 3, come i manifesti, una per l’adorata moglie, una per Mildred e una per l’agente Jason Dixon (Sam Rockwell), goffo, ignorante, razzista. Proprio dal suicidio dello sceriffo quel moto sempre uguale a se stesso che vedeva una traiettoria perfettamente definita, subisce uno scossone: quell’andare avanti e indietro di Mildred alla ricerca di qualcuno a cui dare tutta la colpa, il rabbioso camminare di Dixon trovando nell’altro un diverso da mettere sulla graticola.
Dopo il suicidio di quell’uomo tanto legato alla vita le dinamiche si modificano: in un primo momento Dixon se la prende con tutti per la morte del superiore – arrivando ad essere violento nei confronti dell’agente pubblicitario -, poi, dopo aver letto la sua lettera, qualcosa in lui cambia – rischia di morire e si sveglia in ospedale, bendato e steso accanto a quel giovane che lui stesso aveva mandato in ospedale. Decide di indagare, di riaprire il caso, di cercare il colpevole – è chiaro già nel momento in cui prima di salvarsi, prende la cartella del caso Hayes affinché non bruci nell’incendio appiccato da Mildred come ennesimo gesto per smuovere le acque.
Tranifesti a Ebbing, Missouri: un finale che apre le porte alla speranza
Mildred e Jason sono ormai dalla stessa parte, si parlano, o meglio parlano la stessa lingua, si capiscono e vanno nella stessa direzione. L’agente agisce spinto da quel desiderio di giustizia che prima muoveva solo Mildred: si fa picchiare in un bar da un uomo che reputa colpevole di aver ucciso e violentato Angela, per poterne analizzare i tessuti e chiama Mildred per dirle ciò che potrebbe aver scoperto. Con il cuore pieno di dolore è costretto a darle i risultati delle analisi che crudeli e spietate dimostrano che l’indiziato è colpevole di un reato ma non di quello che ha colpito la famiglia della donna.
Non è stato quello…. Lui quando è accaduto il fatto non era in America quindi se l’ha commesso non è stato certo qui. Ti ho fatto sperare inutilmente
Jason sa però da ciò che ha sentito dire da quell’uomo incontrato per caso in un bar che quello non è colpevole dell’omicidio/stupro di Angela ma di quello di un’altra ragazzina proprio come la giovane Hayes.
C’è soltanto una cosa che avevo in testa. […] Non è il nostro stupratore, è uno stupratore però, non ho dubbi su questo. Ho la targa della macchina e so dove vive. In Idaho.
Ciò che l’agente sta dicendo è umano per quanto sbagliato, vendicarsi, certo non è come aver preso il colpevole dell’efferato omicidio di Angela ma è pur sempre un “regolamento” di conti. Ma è davvero questo ciò che lo sceriffo intendeva con le sue lettere? Avrebbe voluto questo? Jason e Mildred in un primo istante decidono di partire lasciando tutto il loro mondo – lei il figlio, lui la madre – come giustizieri di una notte buia e lunghissima, esecutori di una vendetta esemplare, ma poi si insinua, proprio grazie alle parole di Willoughby, nella mente di Mildred e di Jason un dubbio. Mentre sono in macchina pronti a compiere un viaggio di chilometri e chilometri, si chiedono l’un l’altra se sono sicuri, se ne valga la pena.
Mildred: “Dixon, sei sicuro che vuoi farlo?”
Dixon: “Uccidere questo tizio? Non proprio. E tu?”
Mildred: “Non proprio. Ci rifletteremo strada facendo”
In quel finale aperto c’è tutta la speranza possibile per due poveri cristi che ne hanno avuta poca nella vita (era già presente anche se in minima parte nelle parole di Mildred dette all’agente “Non fa niente, ho avuto un giorno di speranza, è stato più di quanto pensassi”), c’è tutto l’amore infuso e profuso dallo sceriffo nelle tre lettere, c’è la spinta a non essere più soli e a iniziare un nuovo cammino, non dimenticandosi di ciò che è accaduto ma ricordandolo, portandoselo dietro, addosso, dentro. Nei volti distrutti, rovinati, stropicciati dell’uomo e della donna c’è uno sguardo profondo verso il futuro, in quelle risposte simili, nelle domande quasi ricalcate e ripetute c’è un sentire comune, una sorta di compassione (nel senso di patire con) dopo tutti gli insulti, l’odio, il rancore, le recriminazioni che hanno caratterizzato il loro rapporto.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che squarcia e distrugge, che urla addosso una storia che non si dovrebbe mai ascoltare, eppure come in quella poesia di Ungaretti è un campo di battaglia, in cui tutto è messo a ferro e fuoco, ma in cui si può anche scrivere parole d’amore. Parole che per prime sono state dette dallo sceriffo e che poi come un uragano scombinano e scuotono le vite di Mildred e Jason: i due, prima soli, disperati, incattiviti ciascuno per le proprie esistenze, poi si aprono almeno alla possibilità di non scegliere necessariamente violenza, sangue, vendetta ma qualcosa di diverso.