Happy End: la spiegazione e il significato del film di Michael Haneke
La spiegazione e il significato di Happy End, il film di Michael Haneke del 2017 con Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant e Mathieu Kassovitz.
Il maestro Michael Haneke torna al cinema dopo cinque anni dal suo capolavoro Amour, con Happy End del 2017, un film con un cast di eccellenza, presentato in concorso per la Palma d’oro al Festival di Cannes e selezionato nel 2018 per rappresentare l’Austria nella corsa all’Oscar per miglior film straniero.
Per il suo ritorno il regista austriaco torna ad indagare la vita miserabile che si cela dietro la facciata borghese dei protagonisti, che in questo caso corrispondono ai membri della ricca famiglia Laurent. Tematica in netta contrapposizione con il titolo del film, che assume quindi un tono provocatorio e ironicamente cinico.
Tra i volti noti Haneke ritrova la splendida e leggendaria Isabelle Huppert, con la quale collaborò per La pianista del 2001 e che ha ottenuto per la sua interpretazione la candidatura come miglior attrice protagonista agli European Film Awards 2017, e rinnova la collaborazione con Jean-Louis Trintignant, presente anche nel cast di Amour e anch’egli selezionato per concorrere al premio di miglior attore protagonista agli European del 2017. Oltre a loro sono presenti attori straordinari come Toby Jones e Mathieu Kassovitz e volti giovani, nel caso specifico quelli di Fantine Harduit e Franz Rogowski.
Happy End: Eve, l’adolescente dallo sguardo glaciale
Calais, in Francia, è una città famosa per avere uno dei centri d’accoglienza per i migranti più grandi d’Europa; qui abita la famiglia Laurent, un cognome simbolo dell’alta borghesia francese. L’ottantenne capofamiglia è Georges Laurent (Trintignant), fondatore di un’azienda edilizia ora guidata dalla figlia Anne (Hupert) e dal problematico nipote Pierre (Rogowski). L’ultimo membro della famiglia è il figlio di Georges, Thomas (Kassovitz), medico di successo, che vive con la seconda moglie e il loro figlioletto di un anno. George si ritrova inaspettatamente a doversi occupare della figlia nata nel primo matrimonio, Eve (Harduit), dopo il ricovero d’urgenza della madre.
La tredicenne Eve funge da punto di vista principale dello spettatore, che attraverso i suoi occhi entra nella villa Laurent e nelle vite personali di tutti i suoi membri. Osservati e spiati con distacco dallo sguardo freddo e apparentemente privo di consapevolezza della giovane, che in realtà si rende perfettamente conto dell’apocalisse che accade intorno a lei. Ormai però i suoi occhi hanno la stessa valenza della videocamera di un cellulare.
La pulsione suicida del capofamiglia, il razzismo e la freddezza empatica di Anne, la miserevole e disgustosa fantasia sessuale in cui è intrappolato Thomas, infedele e distaccato emotivamente come la sorella e i problemi esistenziali di Pierre, vittima di quegli idoli e quei principi decaduti e decadenti secondo cui vive (male) il resto della sua famiglia. Tutto questo è testimoniato dalla presenza non partecipativa di Eve, uno sguardo estraneo, non coinvolto e autoreferenziale. Un cinema freddo al servizio della cronaca più miserevole, in cui l’emozione dello spettatore non può entrare.
Happy End: la spiegazione del film
Per un film che è la cosa che più si avvicina ad un sequel nella filmografia di Michael Haneke, egli riprende la poetica di Amour e alza la posta, inserendo gli elementi tipici di un cinema che andando avanti con gli anni è diventato sempre più duro, tagliente ed implacabile.
Happy End arriva dopo cinque anni di silenzio solo per proporre un altro tipo di silenzio, uno assordante, così fastidioso da risultare insopportabile e così inutile e frustrante da non riuscire neanche a compiersi nell’unico rapporto di sincero amore presente nel film, quello con la morte. I protagonisti sono i Laurent, morti che camminano, tenuti in vita da sentimenti, azioni e i vissuti più neri dell’animo umano, il cui unico lascito sono le giovani vittime come Eve e Pierre, umanoidi nati e cresciuti nell’assenza totale di amore e calore umano. Una pellicola pessimista ed esistenzialmente abiurante, in cui l’unica maniera per osservare la realtà è distante e fredda come quella di un dispositivo elettronico (un chiaro rimando a Caché) e l’unico desiderio assecondabile è quello di morire per uscire da una vita che di umano ha niente.
La pellicola si trasforma sempre più in una metafora che ha il sapore e le sembianze di una pietra fredda, glaciale, enorme e granitica di un cinema che, come i temi che tratta (razzismo, assenza di empatia, tecnologia alienante e prosciugamento di valori inutili e fuorvianti), è destinato solamente ad andare incontro ad una morte lenta, ma è talmente inetto da non riuscire neanche a far questo. L’unica cosa che possiamo fare noi spettatori è quella di assistere apparentemente non coinvolti e inconsapevoli a questo circolo vizioso, che tristemente non finirà mai.