Editoriale | Quanto Tim Burton c’è in Dumbo?
Quanto Tim Burton c'è in Dumbo? Si nota ancora la vena del regista in questo live action Disney?
Un piccolo elefantino con delle enormi orecchie; è questa la storia che ha spinto alla narrazione uno dei registi più amati di Hollywood ma anche più divisivi (la critica da molti anni afferma di non ritrovare più nulla di lui nelle sue ultime opere): Tim Burton. L’autore dei diversi, delle “lacune” della società, di quelli che per destino sono messi da parte ha da sempre coccolato e abbracciato personaggi grotteschi, scheletrici (Jack Skeleton di Nightmare Before Christmas di cui ha scritto il soggetto e di cui è produttore), con mani di forbice (Edward mani di forbici), giovani e squattrinati artisti incapaci di mettere in scena un successo (Ed Wood), insomma chi meglio di lui avrebbe potuto portare sullo schermo Dumbo, il capolavoro Walt Disney del 1941.
Dumbo: la storia vera dietro al film e la leggenda degli elefanti volanti
L’opera animata è ancora oggi una favola dark per bambini, un racconto che insegna ai più piccoli e non solo a utilizzare ciò che ci rende diversi per diventare unici. Burton, dopo anni dagli esordi Disney, torna in “famiglia” dovendo scendere anche a compromessi, infatti non ci sono il suo classico romanticismo gotico – quello di Edward mani di forbice -, e neppure le atmosfere dei migliori racconti di Edgar Allan Poe, la scelta del cineasta è un’altra e anche per questo l’ultimo film non convince in toto. Questo Dumbo dal punto di vista tematico dialoga alla perfezione con il suo regista che poi però sembra allontanarsi da sé per rendere più “digeribile” alla Disney ciò che ha nella testa: basti pensare alla scena degli elefanti rosa, una delle più spaesanti e disturbanti dell’originale. Il piccolo Dumbo si ubriaca e vede danzare dei suoi simili, nella pellicola di Burton quella scena diventa rassicurante: Dumbo, in preda alla magia, si guarda attorno meravigliato e assiste ad uno spettacolo fatto con le bolle di sapone.
Quale Dumbo racconta Tim Burton?
Dumbo (2019): una soundtrack che sa farci sognare e volare, con la voce di Elisa
Sulla carta Dumbo è una storia alla Burton, gli occhi tristi del cucciolo d’elefante, la paura degli altri che additano, deridono, umiliano chi è diverso, il senso di vuoto di quando si è soli. Burton è il narratore giusto della retorica dell’emarginazione, della solitudine, in grado di riconoscere la sofferenza di un “mostro” ed entrarci dentro con il suo sguardo sensibile, però il cineasta di oggi non è quello degli inizi. Ha detto infatti che proprio gli occhi di Dumbo l’hanno richiamato al racconto, quelli dolci e teneri di chi è differente e non sa perché, di chi vuole riavere la sua mamma e fa di tutto per riaverla.
Lo sguardo del regista c’è, soprattutto nel momento in cui è diretto verso il suo piccolo eroe volante, ma basta questo a fare del remake, o come dice lui del sequel, di Dumbo un film in pieno stile burtoniano? Probabilmente no. Analizzando una delle prime scene del film, che in qualche modo direziona il film stesso, si comprende che Burton ha in mano qualcosa che conosce bene, l’apparizione del suo eroe. Mamma Jumbo dà alla luce il cucciolo, lo nasconde/si nasconde tra la paglia per proteggerlo/proteggersi dal mondo; lo spettatore, proprio come i personaggi, entra con curiosità all’interno del vagone del treno in cui dormono, per guardare. Sotto la paglia ci sono due grandi occhi spaventati, curiosi come i nostri; tutto sembra perfetto ma si complica quando esce scrollandosi di dosso il “giaciglio”, Dumbo, un’ipoteca per il direttore del circo Medici, che ha un neo, un difetto: le enormi orecchie. Come farà a camminare, ad esibirsi? Quella non è una miniera d’oro ma un errore. Qui Burton esprime tutto se stesso, la scoperta di Dumbo per lui è magia. Per il regista il mostro, la creatura “deformata”, bizzarra è qualcuno che, più di altri, è vicino alla realtà e proprio per questo suscita emozioni; infatti in più di un’intervista ammette che Dumbo smuove i sentimenti più profondi, quelli più puri e semplici.
Tutti i circensi guardano stupiti quel cucciolo e Medici invece è su tutte le furie, si lamenta perché, parafrasando, “gli hanno dato un elefante sbagliato”, così spinge Holt, ex star del circo, a trovare una soluzione.
Tim Burton racconta la meraviglia nonostante la differenza
Burton porta nel film tutta la sua poetica dell’emarginato tra un gruppo di emarginati, esplora, aggiungendo però gli umani – nell’originale erano gli animali parlanti a farla da padrone -, la parabola dell’ennesimo outsider. Dumbo capisce che ciò che sembra il dramma della sua vita, in realtà è la sua fortuna. Grazie a due bambini, Milly e Joe, che lo aiutano a scoprirsi e a sopravvivere alla mancanza della mamma, conosce il suo dono, mette a punto il volo e riesce ad andare sempre più in alto. Il Dumbo del regista diventa un racconto di sguardi, quello dell’elefantino, dei “colleghi” del circo, degli spettatori, che mette in scena l'”emancipazione” del protagonista da fenomeno da baraccone, a stella, a elefantino libero. Durante il suo primo numero, quando il pubblico conosce la nuova “attrazione”, emerge chiaramente la dinamica norma/fuori norma: Dumbo entra in scena come un baby elefante, in una culla con cuffia e ciuccio, basta poco e il “segreto” viene a galla, dopo uno starnuto, escono le orecchie, e gli viene affibbiato il nome Dumbo, cioè tonto. Le risate della gente, le pacche sulle spalle, le grida (“Dumbo, Dumbo, sei un Dumbo”), la derisione verso chi esce dai confini, le parole di Medici (“Porta via quelle orecchie – come se il difetto diventasse il tutto -“), addolorano il piccolo, lo affliggono, lo spaventano – da qui deriva la rabbia di mamma elefante che difende il suo piccolo – ed è solo l’inizio perché dopo quello spettacolo verrà strappato dalle braccia della mamma.
Nel secondo incontro Dumbo/pubblico Burton alza la posta in gioco, l’animale è ancora un freak che attira la sua attenzione, è ancora un numero eccentrico ma diventa spettacolo, ridono per lui e non di lui. È dipinto e vestito come un clown – uno dei luoghi narrativi preferiti per celebrare la stranezza che diventa principio spettacolare – con finte lacrime che rigano il suo muso, le orecchie però non sono più nascoste ma mostrate. Qualcosa inizia a cambiare, si compie la magia: Dumbo vola, si vendica di chi lo ha deriso e diventa una stella (il direttore di Dreamland proprio per lui contatta Medici offrendogli un contratto per diventare parte del suo progetto: Dumbo inizia a lavorare con la bella Colette, la star del parco divertimenti).
Burton si concentra, come ha fatto anche in Edward mani di forbice ad esempio, sulla diversità del suo eroe che si trasforma in vantaggio. Si instaura un dialogo muto tra lui e il suo personaggio e ciò perché l’autore si sente profondamente affine a lui: l’elefantino rappresenta perfettamente la figura dell’artista, quella di chi fa fatica ad essere accettato.
Tutti nel Dumbo di Tim Burton sono soli e mancanti di qualcosa
C’è Burton anche nel racconto della solitudine perché questa è una storia di vuoti, di persone sole, allontanate dalla comunità. Il circo di Medici è una comunità di ultimi, di diversi che in pieno stile burtiano riescono a sopravvivere nonostante, o proprio grazie, alla loro differenza e al fatto che insieme creano una nuova famiglia. Tutti i personaggi di questo Dumbo sono mancanti di qualcosa, Holt di un braccio – dopo essere stato in guerra -, Milly e Joe della loro mamma, proprio come Dumbo, Medici del successo, Colette della libertà. Credono di aver trovato l’Eldorado a Dreamland, il parco divertimenti di Vandemere, ma capiscono ben presto che la loro fortuna sta proprio nell’unione tra persone che forse non hanno niente in comune ma che si riconoscono e capiscono. Anche in altri film Burton riflette su tale tema: nelle varie pellicole, i personaggi si legano per stare a galla ma anche perché questi da lui raccontati sono esseri speciali, non mostri ma figure illuminate da una luce “accecante” che colpiscono proprio per la loro diversità. Ciascuno di loro vuole aiutare Dumbo proprio come lui ha fatto con gli altri perché ognuno ha in qualche modo compiuto un percorso che lo ha reso migliore, comprendendo la propria natura e vivendo in funzione di essa.