Cinematographe.it presenta Dumbo di Tim Burton

La parabola fiabesca di Tim Burton ha finalmente abbracciato un mito Disney. Quanto è cambiato il cinema del cineasta di Burbank e come sta reagendo il pubblico alla nuova versione dell’elefantino volante.

“Prima regola della scienza: ci vuole interesse. Altrimenti non meriti di sapere”. Dice così la bambina circense al suo fratellino quando tra un esperimento e un numero strabiliante intorno a loro adottano il piccolo Dumbo. Lei è un’aspirante scienziata in un mondo d’illusioni e trucchi: il circo. Ne è direttore un Danny De Vito con un personaggio molto simile a quello di Big Fish, capolavoro burtoniano del 2003 (lì si trasformava pure in un ammaestrato licantropo). Ci vuole interesse anche per seguire l’opera di Tim Burton, altrimenti la magia non funziona. Soprattutto durante questi ultimi anni, dove le sue pellicole sono state più e meno messe in discussione.

La scrittura di Dumbo, il carico visivo e un remake di 78 anni

Dumbo: scopri qui la storia vera dietro al film e la leggenda degli elefanti volanti

Quando uscì il suo Batman, nel 1989, il fumetto omonimo aveva “soltanto” 49 anni. Uscì infatti nel maggio del 1940 il primo albo concepito da Bob Kane. Nel frattempo aveva girato nell’etere fino a consumarsi una popolare ma oramai desueta serie tv degli anni ’60. Non va sottovalutato il salto drammaturgico dalla carta attraverso il trampolino della trasposizione televisiva sull’immaginario collettivo, produttore di un effetto deflagrante tra pubblico, grande schermo e nuovi immaginari. Sarà che nello scorso millennio il cinema aveva ancora tanti set reali, ma anche la scrittura, anzi la riscrittura fece la sua parte.

Il Dumbo originale di Walt Disney uscì nel 1941, praticamente coetaneo di quel primordiale Bat-Man della DC Comics. I 78 anni che separano i due film hanno però un incolmabile vuoto in mezzo, sia narrativo che emozionale. Questo era il primo tentativo in assoluto di rieditare la storia dell’elefantino volante. L’immaginario del cucciolo dagli occhi blu in questi decenni è diventato mito, santino globalizzato, icona immutata passata giusto tra le raffinazioni di restauri al vecchio cartoon e mille forme giocattolesche da marchandising distribuite al mondo partendo dalle basi Disneyland e dagli avamposti Disney Store.

Dumbo, le emozioni senza tempo e i tempi senza emozioni

Oggi il parallelo tra scienza e fantasia accennato dalla piccola attrice Nico Parker della citazione ha una forza costante nei prodotti cinematografici con l’ambizione di restaurare la fantasia del passato. Burton ha intanto dato carne e ossa a un sogno fatto di carta e acquerelli. L’innesto attoriale e l’impianto visivo si avvicinano fortemente ancora a Big Fish, dove tutto si svolgeva dentro e intorno a un tendone da circo infarcito di fenomeni da baraccone. Ieri gli occhioni luccicanti erano di Ewan McGregor, oggi per l’elefantino li produce in computer grafica la Tim Burton Production insieme alla Walt Disney Pictures. Quasi un secolo fa li dipingeva Walt Disney col suo staff. Le emozioni essenziali che il cartoon scatenava partivano da una plasticità delle immagini precisa, assoluta, voluta spoglia da mister Disney in persona per velocizzare i tempi infiniti di produzione.

L’effetto di questo nuovo lavoro di Burton mescola molto meglio le tecnologie elettroniche con le qualità sceniche di set reali. Decisamente meglio delle esperienze rilucidate e acrilicamente posticce sorbite per Alice in Wonderland e prima ancora nella Fabbrica del Cioccolato. Ma il problema di Dumbo, oltre a una scrittura telefonata che fa di tutto, forse anche troppo per uscire dalla prevedibilità del gigante originale, sta in un sovraccaricare ogni scena riciclando vecchi cavalli di battaglia di Burton. Così i movimenti di macchina attraverso il mondo multicolor del circo arricchisce il cuore spingendolo all’emozione del classico volo dal trampolino, o del muso dipinto da clown, ma lavora principalmente di quantità. 78 anni fa quegli occhioni, insieme alle orecchie sbattute come ali bastavano a rapire il pubblico. In tutto questo tempo siamo cambiati anche noi. Non c’è più stupore davanti allo schermo. Anche i più piccoli sono molto più smaliziati dei bimbi che guardavano Dumbo durante la Seconda Guerra Mondiale in America, o nel dopoguerra in Italia. Il risultato non è un capolavoro, ma neanche un brutto film. Anzi, dignitosamente guardabile, pure godibile con tutti gli sfarzi e le trovate cupe del caso. Vedasi tra queste ultime il braccio amputato di Colin Farrell, padre dei due bimbi amici di Dumbo e triste vedovo alle prese con la ricostruzione di una famiglia, un lavoro di cavallerizzo acrobatico e di uomo integro oltre la menomazione.

Dumbo, volare piano fa incassare bene?

Weekend Dumbo Cinematographe.it

Diciamo che toppare con la rivisitazione di un grande classico, un timoniere come Tim Burton e 170 milioni di dollari come budget era operazione parecchio difficile. Uscito in America e nei principali paesi del mondo il 29 marzo, ha totalizzato 129,5 milioni d’incasso. Sicuramente supererà di molto il budget, ma non lo moltiplicherà al box office come i muscolosi cuginetti Marvel/Disney. Da noi l’incasso si attesta sui 3,7 milioni, ovviamente primo, ma un film del genere i propri introiti li genere anche e soprattutto nel tempo e in diritti televisivi e digitali, più giocattoli, abbigliamento e ogni altra diavoleria capace d’inventarsi il marketing planetario sulle orecchie volanti più famose di sempre. Quindi si parla di un sogno fattosi tenue, partito con incontrollabile hype ma svaporato in risultati da onesto blockbuster come tanti.

Tim Burton, la parabola discendente e il nuovo Beatlejuice

L’interesse del pubblico è mutato. O meglio, la sua impressionabilità rispetto a immagini complesse e impossibili. Evoluzione narrativa, del pubblico o tecnica, il cinema i Tim Burton da qualche anno ha subito una flessione rispetto al giovane cineasta che tra gli ’80 e i ’90 ha messo a ferro e fuoco critica e fans con mondi inediti e un filotto di capolavori. La maturità a volte sfuma, se non la classe, la capacità e la freschezza di fabbricare nuovi sogni all’altezza dei vecchi ma pure al passo coi tempi. È un naturale dejavu, un classico anche questo. Per Burton l’innesto della computer graphic su una carriera di scenografie eroiche, puppett mossi con le foto del Passo Uno e trucchi da animatore in plastilina ha avuto scossoni in passato (Alice e La fabbrica) ma, almeno visivamente, ora la credibilità dell’incredibile elettronico è compiuta.

Restiamo ancora orfani del fattore artigianale, quello che ha reso The Nightmare Before Christmas un caposaldo e Tim Burton un guru del cinema. Lo stesso risultato artistico, uscendo un attimo da casa Burton, sempre con dovuto relativismo di tempi e autori, è stato ottenuto recentemente da Kubo e la spada magica. Che sia o no un più armonico innesto tra set reali ed effetti speciali una delle chiavi assolute del futuro dei mondi burtoniani ce lo rivelerà forse uno spiritello porcello. Beatlejuice 2 è un pallino che da decenni frulla in testa a molti tra fan, addetti ai lavori e allo stesso autore. Sembra che il progetto per il seguito possa essere possibile, soprattutto dopo la disponibilità dichiarata da Michael Keaton e Winona Ryder a riprendere i vecchi ruoli. Staremo a vedere. Intanto il sogno reiterato di casa Disney, l’inevitabile passaggio tecnico dal cartone agli attori reali continua, così, avvolto dalle tenere orecchie di Dumbo è nei cinema per rapire e commuovere a modo suo le nuove generazioni smart.