Le belve: recensione del film di Oliver Stone
Sotto il sole brillante e nel buio più profondo, con Le belve Oliver Stone critica le brutture dell'America, con Blake Lively e Aaron Taylor-Johnson.
Un trio di bellissimi “selvaggi” invischiato in un brutto affare di droghe, sangue e malavita: sono Le belve di Oliver Stone, film del 2012 con protagonisti Aaron Taylor-Johnson e Blake Lively.
Immersi nei paesaggi paradisiaci di Laguna Beach, Ben (Aaron Taylor-Johnson) e Chon (Taylor Kitsch) sono soci in affari e in amore. Il loro business di produzione della miglior Cannabis di zona e non solo, e l’amore in sinergia per Ophelia (Blake Lively), detta O. in shakespeariana rievocazione di un potenziale dramma al femminile, sono infatti due punti nevralgici delle loro vite, due elementi capaci di convalidare e suggellare quel paradiso californiano di sole, soldi, e impagabile successo. Perché se Chon ha riportato dagli orrori della guerra in Afghanistan e nei riverberi dei suoi frequenti incubi quei semi di qualità capaci di fare la differenza, Ben ha messo al servizio delle loro idee la sua intelligenza e le sue due lauree: in marketing e botanica.
Il tutto, per un business vincente con il doppio compito di sedare gli animi più instabili e alleviare i dolori dei malati terminali generando quel mucchio di quattrini che garantisce ai tre bellissimi ragazzi un benessere esemplare fatto di mega villa con piscina, sesso, feste, e una vita di soli agi bagnata dal sole sempre caldo della loro California. Ma, come in ogni rovescio della medaglia, e per una bizza del destino, a un certo punto il loro business di successo attirerà gli occhi indiscreti di un sanguinario cartello messicano comandato da un boss insospettabile (la ultrasexy e spietata Elena Sanchez di Salma Hayek), determinato a fare dei due ragazzi suoi soci, costi quel che costi. Restare uniti e vivi sarà a quel punto una partita da giocare sul filo di lana.
Le belve di Oliver Stone smaschera le brutture dell’America, tra successo e violenza
L’eccentrico regista newyorkese Oliver Stone (nella ricca filmografia titoli celebri come Platoon, Assassini Nati – Natural Born Killers, Snowden), da sempre interessato nei suoi film a smascherare le brutture di un’America spesso e volentieri iniqua e machiavellica, cavalca le onde del successo con un film che brilla sopra ogni cosa per un cast di “divissimi”: Blake Lively, John Travolta, Aaron Johnson, Salma Hayek, Emile Hirsch, Benicio Del Toro. Nelle pieghe di una storia che contrappone sole e buio, successo e violenza, la bellezza delle onde perfette e della gioventù all’orrore della guerra, della violenza, delle dipendenze, e dei traffici clandestini, Le belve vira presto i toni paradisiaci dei luoghi nei toni cupi e sanguinosi di una legge della giungla dove (come al solito) sopravvive chi e più feroce e/o chi sa far “roteare” più velocemente la rivoltella.
Nella critica tumultuosa e subdola mossa a un’America invischiata e con le mani in pasta tanto in guerre fratricide quanto in affari loschi e violenti, di una società che nutre il male già negli affetti interrotti e tossici vissuti tra le mura di casa, Stone ammalia e seduce con una narrazione vibrante e dal ritmo incalzante di buoni che giocano (non senza difficoltà) a fare i cattivi e cattivi (per necessità o “virtù”) che non potranno mai essere buoni. Lisergico nell’anima, Le belve scava nel lato più dark dei compromessi tra uomini portando alla luce le dinamiche più controverse di un mondo selvaggio (Savages, appunto, come nel titolo originale) e senza possibilità di riscatto alcuno.
Al crescere della posta in gioco, delle vite a rischio, e quindi della temperatura, Stone contrappone poi l’approccio sempre carnale di Chon a quello ben più spirituale di Ben, buddista e pacifista per vocazione, indicando nelle due vie i diversi modus operandi dell’uomo contro i colpi bassi della vita. Azione pragmatica e filosofia di vita convergono dunque in questa dark story di narcotrafficanti eterogenei, con background e obiettivi assai diversi, macinati e rullati in un contesto adrenalinico di una sete d’affari sottomessa alla spietata logica del ricatto, della vendetta e dei legami profondi da sfruttare per raggiungere risultati sicuri – “Se vuoi controllare qualcuno prendigli quello che ama”.
Una storia dove al netto di un manierismo talvolta un po’ ridondante e del flusso a tratti barocco della messa in scena, a catturare l’occhio dello spettatore è l’adrenalina formale e concettuale sviscerata lungo le scorrevoli due ore e dieci di film, incanalata lungo la traiettoria di un puzzle di contrabbando e sfruttamenti che si muove fino e oltre la linea di demarcazione tra bene e male, realtà e proiezione, formalità e astrazione. Un’opera infine valorizzata dalla velocità linguistica di una regia che coniuga sapientemente forma e contenuti, parole e suggestioni, e riesce sempre a tenere alto il livello d’attenzione grazie alla logica narrativa del “nulla è mai quello che sembra”.