Non ci resta che ridere: recensione del film di e con Alessandro Paci
Non ci resta che ridere è un film diretto e interpretato da Alessandro Paci, dal 2 maggio al cinema. Nel cast anche Massimo Ceccherini e Benedetta Rossi.
Cosa accade quando ti riunisci coi tuoi amici di sempre, per trascorrere una serata all’insegna di risate e continue battute? Si dice che ridere allunga la vita e, se pensiamo che a riunirsi, per raccontarsi le barzellette più disparate, sia un gruppo di comici toscani, allora tutto ciò vale probabilmente il doppio. Dopo anni trascorsi a raccontare barzellette in televisione, nel cinema, tra amici e colleghi, Alessandro Paci ha deciso di trasporre in un film tutto quello che ha fatto strappare risate a milioni di persone. Non a caso il film è intitolato Non ci resta che ridere.
Tra una battuta e l’altra, Paci torna alla regia – il suo ultimo lavoro dietro alla macchina da presa risale al 2006, quando ha diretto La piccola fiammiferaia insieme al fratello Andrea -, presentando un pout-pourri di ciò che sa fare meglio. Non ci resta che ridere può essere definito una raccolta di gag, che vedono come protagonisti gli amici e le persone che da anni collaborano con Paci (Massimo Ceccherini, Alessio Nencioni, Max Galligani, Gaetano Gennai, Sergio Forconi). L’obiettivo, così come evidenziato anche dal titolo, è assicurare agli spettatori 90 minuti di risate continue, tramite scenette guidate da innumerevoli personaggi: camerieri, prostitute, suore, medici ecc.
Non ci resta che ridere: una raccolta di gag che consacra la carriera di Alessandro Paci
Non ci resta che ridere mostra al pubblico situazioni quotidiane e personaggi stereotipati – alcuni meno o più di altri – in una serie di numerose gag che non sono collegate le une alle altre. Più che un film vero e proprio, può essere considerato una sorta di documentario che consacra la carriera da attore comico e cabarettista di Paci, che non riesce a non avere una battuta pronta per qualsiasi occasione.
Gli stessi attori tornano anche in gag diverse, interpretando personaggi differenti. Massimo Ceccherini, dopo aver sperimentato le vesti di frate in Ti amo in tutte le lingue del mondo di Leonardo Pieraccioni, nei panni di Padre Massimo, torna a interpretare una sorta di “santone”, che compie (a suo modo) degli strani e bizzarri miracoli. Con Ceccherini si gioca facile in un film che ambisce a far ridere: la sua aria stralunata e le sue movenze goffe sono completamente in antitesi a un qualsiasi ruolo religioso. Anche Paci si riconferma un grande intrattenitore, capace di placare la “platea” con le sue barzellette e battute inaspettate. Un po’ meno convincenti gli altri attori, forse per i ruoli a loro assegnati, fin troppo stereotipati.
Paci usa degli escamotage metacinematografici, come se volesse esorcizzare il pensiero critico, come se volesse presentare il progetto per quel che è: semplicemente un prodotto per far ridere e divertire, senza troppe pretese. Paci e Alessio Nonfanti (in arte Kagliostro), così come altri personaggi che vediamo nel corso degli sketch che si alternano nel film, rappresentano tutti noi spettatori, seduti in una sala cinematografica, magari trascinati da amici o a vedere qualcosa che non faceva parte dei propri programmi. I protagonisti, in questo caso in qualità di pubblico, commentano ciò che accade sullo schermo, ridono, criticano, ricreando situazioni divertenti o irritanti che possono accadere all’interno delle sale cinematografiche.
Non ci resta che ridere: il metacinema come strumento di autocritica/autoironia
Se non si riflettesse su questo lato metacinematografico, il film sembrerebbe un mero prodotto senza uno scheletro portante, senza contenuti incisivi. In fin dei conti, basandoci su una visione superficiale – come magari si aspetta lo spettatore medio che non sa che fare in una giornata di pioggia e decide di andare al cinema -, Non ci resta che ridere è colmo delle tipiche caratterizzazioni che vediamo da decenni nel cinema italiano (i carabinieri con un marcato accento del sud, più precisamente campani, che non spiccano per la loro intelligenza; le classiche ragazze bellissime che vengono usate per lo più per fini estetici, sessuali e per una generale godibilità visiva del film; parodie di suore, preti e discepoli con tanto di ribaltamento delle ideologie religiose ecc.), anche se talvolta le battute brillanti escogitate da Paci non riescono a trattenere da una fragorosa risata.
Ciò che avrebbe potuto rendere particolarmente interessante il film di Paci, e che è stato sfruttato probabilmente troppo poco o comunque in modo marginale, è quella sorta di autocritica/autoironia che pervade il cinema toscano (o se preferite, il cinema comico toscano), quello straniamento che porta il regista a decidere di introdurre la scena in cui lui e parte del cast del film si osservano, dando dei giudizi. Ma si sa, d’altronde il cinema toscano è noto per non prendersi mai troppo sul serio, e Paci non voleva certamente offrire una rivisitazione dello straniamento brechtiano, anche se, per caso o consapevolmente, cerca di distanziare il pubblico dai suoi sketch approcciandosi più volte a tale metodo.