Aladdin (2019): recensione del live-action Disney
Recensione di Aladdin che, dopo le tante preoccupazioni, si conferma un film poco riuscito, in bilico tra una visione godibile e un'aria amatoriale.
La sfortuna di Aladdin è partita già tempo addietro, molto prima della sua uscita. Nulla sembrava girare a favore del nuovo progetto Disney in live-action, nello sconcerto di un casting non propriamente adeguato secondo i più e con un trailer che aveva suscitato l’indignazione di fan e appassionati. Il genio (non) blu di Will Smith e i costumi al limite degli eventi per cosplayers avevano dato sfogo ad un bacino di utenti che avevano preso di mira il film di Guy Ritchie, con battute parodistiche e una sfiducia man mano crescente e alimentata dalla diffusione delle immagini ufficiali.
Nascosta tra le prese in giro e le frecciatine verso la versione umanizzata di Aladdin era facile, però, cogliere una delusione maggiore rispetto alla semplice risata facile, piuttosto la maniera di esorcizzare l’ennesima operazione nostalgia/finanziaria che la casa di Topolino aveva messo in atto. Più di altri giunti a questo punto, Aladdin sembrava già dal principio una pellicola che sarebbe stato meglio non realizzare, soprattutto quando il compartimento tecnico sembrava tanto confuso quanto lo scontento che ha di conseguenza suscitato nel pubblico, prima ancora di essere proiettato in sala.
Aladdin – Dalla storia tagliata ai personaggi ripensati
A fronte, però, di una realizzazione che presentava fin proprio da subito le sue gravi mancanze, Aladdin ha saputo difendersi meglio di quanto, a una prima, veloce considerazione si poteva pensare. Non che questo lo sollevi dalle indecenze di cui è impossibile non parlare, ma a paragone con progetti similari che la Disney ha attuato negli ultimi anni, il film cerca di difendersi come meglio può, riuscendo almeno in parte nel proprio salvataggio.
Stravolgendo fin proprio dall’inizio il racconto del 1992, il film di Ritchie tenta di combinare elementi originali della narrazione agli avvenimenti classici del cartone animato di Ron Clements e John Musker. Preoccupando per la scelta di tagliare enormemente una prima parte che sarebbe dovuta sopraggiungere soltanto con il proseguire della pellicola, facendo così domandare allo spettatore quali sarebbero stati gli escamotage per riuscire a portare avanti la storia. Trama che sa, comunque, riempirsi di componenti, più o meno felici, in una rivalutazione e nell’ampliamento dello sviluppo della figura della principessa Jasmine e nel lasciare maggior spazio al genio tra mistico e umano di Smith.
Entrambi con trovate potenzialmente interessanti, destinati a una ricerca – la principessa di significato, il genio di intrattenimento – che, se pur sufficiente, non li mette sotto la miglior luce sperata. Potenti dell’ondata femminista che sta invadendo Hollywood e il mondo intero, la caratterizzazione della figlia del sultano possiede una chiave di emozione e rivolta che, però, depotenzia la forza intrinseca nella Jasmine d’animazione, già in grado di mostrare la propria volontà e farla valere più di quanto sembrerebbe fare quella di Naomi Scott. A confronto con un messaggio indubbiamente positivo e di un’importanza fondamentale, è la scrittura basica del personaggio che non giustifica il fine a cui tendere, una giovane che pur volendo far ascoltare la propria voce – in un momento, soprattutto, da videoclip su cui è bene sorvolare -, finisce per diventare bidimensionale e rompe così la determinazione che apparteneva al suo corrispettivo animato.
Aladdin – Un film continuamente in bilico, come su di un tappeto volante
Confronti con un cartone che sarebbe inappropriato fare, ma da cui è difficile sottrarsi, soprattutto quando quest’ultimo ha regalato alla nostra fantasia personaggi come un genio, amico, blu, da molti considerato tra i migliori della schiera Disney. Impossibilitati, dunque, anche solo all’avvicinarsi all’iconico genio doppiato da Robin Williams – e, da noi, da Gigi Proietti -, gli sceneggiatori hanno saputo utilizzare con furbizia la soluzione del personaggio “umano” di Will Smith. Fattore a favore del nuovo genio che, infatti, pochissimo funziona colorato e alle prese con magie e trasformazioni, ma acquista una certa simpatia quando si distacca dall’universo della lampada e sfrutta l’ironia del suo attore.
Come il senso di precarietà che si prova la prima volta su un tappeto volante, Aladdin è continuamente in bilico tra la possibilità di una visione godibile e una ventata amatoriale che ricorda più un rifacimento scolastico che una produzione da milioni di dollari, un film con cui potersi moderatamente divertire e urtarsi per la bassa qualità delle scene d’azione e gli effetti speciali. Un alternarsi continuo, riscontrabile persino nei momenti musicali, che in un’unica sequenza hanno la capacità insieme di affascinare e infastidire. Un’altra operazione live-action che, dunque, non può mantenere le aspettative. Chissà quanti desideri mancano alla Disney prima di capire che, forse, sarebbe meglio passare ad altro.
Aladdin, prodotto da Walt Disney Pictures, Rideback e Marc Platt Productions, sarà in sala dal 22 maggio, distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures.