Happy family: recensione
Gabriele Salvatores, uno dei baluardi del cinema italiano esportato oltreoceano, ci presenta quello che potremmo definire un caso di metacinema, un cinema che si fa teatro scendendo a compromessi stilistici che non snaturano né l’uno né l’altro linguaggio. Ezio (Fabio De Luigi), giovane scrittore impacciato, è preda dell’incubo di qualunque creativo, i personaggi della sua storia infatti si ribellano alle scelte narrative e lo tartassano di richieste.
Una struttura di base che dà modo al regista (come agli attori e alla scenografa Rita Rabassini) di innestare elementi teatrali all’interno del modulo filmico. L’incipit, un sipario sopra cui compaiono i titoli di testa, ci mostra chiaramente questo modulo stilistico, contestualizzando la scelta narrativa ma non creando un codice chiuso che sistematizza l’alternanza dei due linguaggi. La storia prende chiaramente ispirazione dall’opera di Pirandello sei personaggi in cerca d’autore, ma si rivela presto – ad occhio cinefilo allenato- un film tributo: non una storia che fa dell’originalità la sua arma di punta, ma un’occasione drammatica (in senso lato) per trattare del processo creativo e delle frequenti crisi da blocco dello scrittore a cui il nostro protagonista va incontro. Happy family si presenta, come tutti i lavori di Salvatores, un’opera intrisa di enfasi: dai personaggi, tutte irresistibili macchiette, alla scenografia con cui il regista crea un mondo volutamente costruito, teatrale.
Assistiamo spesso ad un’uniformità cromatica (tra il vestiario dei personaggi e lo spazio loro circostante) che intende chiaramente denotare il mondo finzionale raccontatoci da Ezio, distinguendolo dal caotico mondo reale, costruendo uno scenario di senso modulato sui significati cromatici. Le esplosioni di colore che totalizzano le inquadrature e investono i nostri occhi rivelano il mood dei personaggi e contribuiscono a creare un distacco dalla realtà, dove altrimenti i personaggi – così fortemente caratterizzati – perderebbero credibilità.
Salvatores ci regala un esercizio stilistico notevole che non si avvale di una trama avvincente, al contrario attinge dichiaratamente le proprie radici nel citazionismo. Chiamando in causa Fellini e Wes Anderson egli crea un armonioso e divertente tributo all’arte drammatica.
Nelle sale dal 18 dicembre con Il ragazzo invisibile, esperimento supereroistico tutto italiano, Gabriele Salvatores può determinare un punto di svolta nel panorama cinematografico nostrano, sempre più spesso carente di audacia e di inventiva. Possiamo aspettarci grandi cose da lei, signor Salvatores.