La musica che non ti ho detto: recensione del film con J.K. Simmons
La musica che non ti ho detto ricerca una commozione sincera, ma in certi punti si comprende che c'è tutta una costruzione per arrivare a tale risultato.
Nel 1986 Henry Sawyer e la moglie Helen ricevono una di quelle telefonate che nessuno vorrebbe ricevere: è stato ritrovato il figlio Gabriel con cui non hanno rapporti da molti anni. Il ragazzo di un tempo, ormai uomo, soffre di un tumore (benigno) al cervello che ha danneggiato i centri della memoria, costringendolo ad una vita all’interno di una struttura ospedaliera. Parte così La musica che non ti ho detto, il film diretto da Jim Kohlberg con J.K. Simmons – che interpreta perfettamente Henry dando corpo al dolore, per ciò che ha perso, all’emozione per ogni traguardo raggiunto, e all’amore da lui provato per il figlio – in cui tutto come dice il titolo si concentra sulla musica, unico punto di comunicazione e di congiunzione tra il padre e il figlio, tra il ricordo e il dialogo.
La musica che non ti ho detto: una storia che trae ispirazione dal saggio, The Last Hippie, del neurologo inglese Oliver Sacks
Dopo aver notato che il viso di Gabriel si accende quando sente della musica a lui cara, Henry e la moglie decidono di tentare il tutto per tutto, rivolgendosi per aiutare quel figlio che sembra completamente perduto, ad una dottoressa che ha studiato il collegamento tra musica e ricordi. Quest’ultima comprende, facendo ascoltare i brani della giovinezza dell’uomo, che non è tutto perso, sta proprio lì la chiave per scardinare la barriera in cui Gabriel è stato “rinchiuso”. La musica che non ti ho detto trae ispirazione da un caso realmente accaduto, documentato nel saggio The Last Hippie del neurologo inglese Oliver Sacks.
Quella vicenda vera, nel primo film da regista del produttore Kohlberg, segue il difficile rapporto tra un padre e un figlio, tra un amante del jazz – infatti è stato proprio il padre a far “scoprire” e amare la musica al suo “bambino” – e uno della musica della “rivolta”. Il film viaggia su due binari, quello dell’oggi e quello di ieri, grazie alle note dei Beatles, di Bob Dylan, Grateful Dead – che hanno un ruolo fondamentale nel film -, che sono serviti a Gabriel per ribellarsi alla figura genitoriale e ad una società che non ha sostenuto i suoi figli ma li ha mandati a combattere in Vietnam (terribile quando lui continua insistente a chiedere di un amico perché non riesce a ricordare che è morto) e li ha costretti a vivere secondo le sue regole.
La musica che non ti ho detto: la musica diventa strumento per ricordare e per ricostruire un rapporto
La musica che non ti ho detto è la storia di un conflitto e di un amore che si riscopre proprio nella rilettura di un passato da cui Henry capisce i propri sbagli; l’uomo deve comprendere che lui e Gabriel sono due persone diverse, che si comportano, fanno, dicono cose diverse. Gabriel è incapace di tante cose – quando rivede la sua prima fidanzata le pone più e più volte le stesse domande perché la sua memoria si cancella come quelle lavagne dei bambini a cui basta un gesto e le scritte, i disegni spariscono -, i suoi interessi, bloccati a vent’anni prima, sono quelli legati alla politica, al diritto, alla musica, quelli che in passato hanno causato la distanza sia fisica che emotiva con i genitori. Henry, proprio in questo difficile momento, può – anzi – deve, imparare ad accettare le scelte di suo figlio, connettendosi con lui attraverso la musica. Il padre lotta per quei momenti in cui Gabriel è come se lo ricorda; riportando alla mente quei pezzi di vita, a volte dolorosi, a volte bellissimi, a volte struggenti, Henry e Gabriel rinverdiscono un rapporto che sembrava distrutto, costruiscono nuovi momenti insieme che purtroppo forse il giovane uomo ricorderà con difficoltà ma che restano speciali.
La musica che non ti ho detto: un film che riesce a toccare il cuore ma che in altri momenti pecca di ingenuità
La musica che non ti ho detto percorre a suon di note, incontri e scontri, distacchi e “riunioni” di una famiglia, di un padre e di un figlio; mette al centro l’amore, i buoni sentimenti, il riconoscimento dei propri errori per ritrovarsi e ricreare un rapporto. Sia Henry che Gabriel devono qualcosa all’altro: il primo, una nuova visione della vita, maggiore elasticità, il secondo, la musica ed è proprio grazie a quest’ultima che comunica, parla, apre il suo cuore – ad esempio quando crea un’amicizia con una ragazza che lavora nella “mensa” dell’ospedale – e la sua mente, ritrova quel padre eroe, complice e alleato. Uno dei momenti più intensi è quando il padre e il figlio vanno al concerto del gruppo preferito di Gabriel, e questo diventa il simbolo del film: complicità, divertimento, comunione e comunicazione sono queste le parole che testimoniano un rapporto rinato e ricostruito.
Il film, come si può immaginare, punta all’emotività, ricerca una commozione sincera, ma in certi punti si comprende chiaramente che è tutta una costruzione proprio per arrivare a quella commozione. Questa esasperazione si evince anche nella storia stessa, molto classica e a tratti fin troppo ingenua.