TFF33 – La Patota: recensione del film di Santiago Mitre
La Patota, film tratto dall’omonima pièce di Eduardo Borrás e remake dell’omonimo film di Daniel Tinayre, è il terzo lungometraggio di Santiago Mitre, presentato nella selezione ufficiale Torino 33 al 33. Torino Film Festival e già protagonista de la Semaine de la Critique al 68. Festival de Cannes.
Paulina (Dolores Fonzi) è una giovane e brillante avvocatessa di Buenos Aires che decide di lasciar tutto per un progetto di volontariato ai confini tra l’Argentina, Brasile e Paraguay. Fin dall’inizio vediamo Paulina, una ragazza molto testarda e determinata che discute col padre Fernando (Oscar Martinez), potente uomo politico, che ha sempre provato una profonda stima e rispetto per la figlia, ma non riesce proprio a capire da cosa siano guidate queste scelte.
Fin dall’inizio la camera rimane molto stretta sui personaggi, in uno stato quasi oppressivo, ricreando sia le sensazioni e l’emozioni di Paulina – le quali saranno sempre le stesse dall’inizio fino alla fine della pellicola- sia per poter trasmettere allo spettatore i sentimenti di tutti i personaggi.
La Patota: una storia di coraggio e di violenza sulla donna, raccontata attraverso una visione distorta e disturbante
Paulina e Fernando sono l’uno il riflesso dell’altra, sebbene in modo diverso. Come tutti i genitori, Fernando vuole solo il meglio per sua figlia e conosce bene tutti i suoi sacrifici che, prendendo una scelta del genere, andrebbero semplicemente buttati al vento. Fernando vede in sua figlia tutto ciò che non ha fatto lui, a differenza di Paulina che vede nel padre l’ombra di un futuro troppo rigido, rigoroso e già scritto. Paulina, in quella che potrebbe sembrare la volontà ponderata per una vita differente a favore di un’indipendenza maggiore, pecca di una feroce immaturità che la spinge tra le braccia del suo inferno personale. La provincia non è rosa e fiori come Paulina si aspetta, e le difficoltà che riscontra nella popolazione è solo un minimo di ciò che le aspetta realmente. Infatti a segnare totalmente Paulina è un tragico evento, evento che unirà la sua strada con quella di altri due ragazzi che, apparentemente, con Paulina non c’entrano nulla.
Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ecco cosa paga Paulina, una feroce violenza che la farà cambiare profondamente e, se la scelta di lasciare un ottimo posto di prestigio potrebbe sembrare una follia, non è nulla in confronto alle scelte che prenderà da questo momento in poi, lasciando davvero senza un briciolo di forza lo stesso Fernando e tutti gli altri personaggi che le ruotano intorno.
Santiago Mitre prova a tracciare con La Patota una storia di coraggio e di violenza sulla donna, ma lo fa con una visione distorta e disturbante, ovvero quella di Paulina. Paulina comprende le scelte degli altri, ma gli altri non possono comprende le scelte di Paulina. Si prova a immergersi davvero nella testa della donna, ma è impossibile, e non tanto per il tipo di scelte veramente paradossali che prende, quanto per la mancanza totale di una vera giustificazione.
Una visione non facile da digerire quella de La Patota, e sicuramente non comprensibile. La causa, però, non è solo della storia in sé per sé. La sceneggiatura è un continuo passare dal presente al passato, concludendosi con un tempo incerto, non chiaro. Il voice off è spesso invadente e inutile. Paulina non è la sola protagonista di questo film. Il suo punto di vista non è l’unico. Ce ne sono altri tre differenti, che però arrivano e se ne vanno senza una chiara costruzione. Una doppia visione degli avvenimenti, dove quella di Paulina è indubbiamente centrale, ma si alterna prima con quella di un personaggio e poi con quella di un altro, senza un chiaro motivo, facendo confondere e perdere il vero fuoco allo spettatore, già abbastanza disorientato dalle azioni incomprensibili della protagonista.
Trascuratezza, una forte trascuratezza che si legge dalla regia alla sceneggiatura. Mitre non voleva, come lui stesso afferma, girare una copia identica a quella della pellicola di Tinayre, ma il metodo con cui si distacca è troppo improvvisato, forse semplicemente troppo per un regista da un’esperienza ancora molto povera.
Urta non poco vedere come Paulina, vittima del più atroce degli abusi, realtà vera e quotidiana per i piccoli paesi di quei confini, ha la fortuna di poter punire i suoi carnefici, fortuna che non hanno moltissime donne, ma non vuole fare nulla. Dalla sua parte c’è la giustizia, una giustizia sicuramente corrotta e marcia, ma che può dare quel minimo di soddisfazione nel sapere che almeno, per molto tempo, queste bestie saranno lontane da qualsiasi altro essere umano, eppure ci sputa sopra, come nulla fosse. Una ragazzina viziata che fa di tutto per ottenere attenzione, per tirar fuori quella suo lato da ribelle che in ventotto anni di vita non ha mai fatto. Il personaggio di Paulina è un personaggio quasi detestabile, che non convince. Poco approfondito, troppo istintivo.
Interessante il lavoro sul superamento del dolore. Un dolore molto intimo e personale. Una traccia che sicuramente Mitre avrebbe potuto sfruttare meglio in favore di un film diverso e migliore, ma che rimane appunto solo un spunto sul quale si può riflettere nei silenzi dei personaggi stessi.
La resa finale de La Patota, purtroppo, non convince e viene quasi spontaneo chiedersi se Santiago Mitre abbia mai incontrato in vita sua una donna vittima di violenza.