Quentin Tarantino in 8 scene: le migliori dei suoi film
Le 8 scene simbolo che hanno reso grande il cinema di Quentin Tarantino, da Le Iene del 1992 fino a The Hateful Eight del 2015, aspettando la sua ultima fatica: C'era una volta a... Hollywood.
Dagli esordi da novello cineasta con le sceneggiature di Una vita al massimo (1988), diretto da Tony Scott, e Assassini Nati (1993), diretto da Oliver Stone – venduta per 400.000 dollari nel 1989, e che rinnegò a prodotto finito dopo le modifiche volute da Stone -, fino al suo primo lungometraggio da regista, Le iene (1991), e all’approdo a Cannes ’94 con Pulp Fiction (1994), Quentin Tarantino negli ultimi ventotto anni è diventato il simbolo di un nuovo modo di far cinema. La sua è una continua rielaborazione e revisione dei generi e una contaminazione citazionista che, nel suo cinema, strizza l’occhio alle pellicole di Blaxploitation con Pam Grier, degli Spaghetti-Western di Sergio Leone e Sergio Corbucci, fino alla Commedia all’italiana di Lino Banfi ed Edwige Fenech , la Nouvelle Vague di François Truffaut e i Poliziotteschi di Fernando Di Leo ed Enzo G.Castellari, che aveva visionato quando era ancora un cinefilo adolescente.
Un modo di fare cinema, quello di Tarantino, che è stato oggetto di numerose critiche in realtà, venendo accusato da alcuni di plagio e di mancanza di idee originali visti i frequenti rimandi ad altre pellicole e, in certi casi, di molte similitudini di trama. In realtà è esattamente il contrario, il suo per quanto mascherato da cinema d’intrattenimento è un cinema d’élite – come facilmente intuibile dalle strutture narrative alla base di Pulp Fiction e Kill Bill che ne destrutturano la linearità e la abituale sequenzialità temporale, ricostruendola e innovandola, dando così un nuovo punto di vista – dove la citazione diventa espediente colto, ma al contempo funzionale alla narrazione. Tarantino infatti, anche grazie al suo bagaglio da “cinefilo da videoteca” riesce sempre a inserire riferimenti e rimandi, in modo intelligente, calcolato, creando curiosità nello spettatore e aprendogli un nuovo mondo di pellicole “minori” da visionare – se necessario – per comprendere appieno il cinema nella sua interezza. Parafrasando T.S. Eliot (frase in realtà attribuita a Stravinsky, ma anche a Picasso) d’altronde: “i grandi artisti non copiano, rubano.”
Il cinema di Tarantino, forte di questa visione che ha un po’ caratterizzato gli ultimi vent’anni – e influenzato fortemente registi come Edgar Wright – si articola in quindici pellicole ma, a detta dello stesso regista italoamericano, i film che ritiene suoi sono gli otto di cui è regista ma anche sceneggiatore, e di cui vi presenteremo adesso le rispettive scene più iconiche da Le iene del 1992, fino a The Hateful Eight del 2015, in attesa della sua ultima fatica: C’era una volta a… Hollywood in uscita il 19 settembre 2019.
Le iene (1992): la mancia secondo Quentin Tarantino (e Mr. Pink)
La pellicola d’esordio di Tarantino, è un sorprendente gangster movie dal soggetto semplice, ma dall’intreccio molto articolato – e un cast che annovera attori del calibro di Harvey Keitel, Tim Roth, Steve Buscemi, Michael Madsen e il compianto Chris Penn. Le iene fa capire da subito il modo di fare cinema del cineasta italoamericano, in una sequenza iniziale dove, nel declamare la poetica della mancia secondo Mr Pink, viene provato a spiegare il sottotesto alla base di di Like a Virgin di Madonna (la quale rispose “un po’ stizzita” dopo aver visto il film) e il ruolo della cameriera nell’America degli anni Novanta.
Con Le iene, Tarantino coglie l’occasione per citare una sequela di capolavori del cinema gangster (e non solo), a partire da La furia umana (1949) di Raoul Walsh, con uno straordinario James Cagney, fino a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa di cui è in parte ispirata la struttura narrativa e La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet per le atmosfere. E ancora con Rififi (1955), di Jules Dassin e Frank Costello faccia d’angelo (1967), di Jean-Pierre Melville con cui scandagliare il conflitto interno del gangster nelle dinamiche di gruppo, fino a Milano Calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo.
Pulp Fiction (1994): Quentin Tarantino, Vincent Vega, Mia Wallace e 8½
La pellicola della consacrazione di Tarantino è il sorprendente Pulp Fiction e la sua struttura narrativa che, come citato precedentemente, destruttura e reinventa il genere. A partire dalla valigetta di Marcellus Wallace, uno dei più celebri MacGuffin del cinema postmoderno che rievoca in parte la Rosabella di Quarto Potere (1941), diretto da Orson Welles, fino al Butch Coolidge di Bruce Willis che – con l’abituale canotta sporca di sangue alla John McClane – nel momento critico anziché prendere un’arma da fuoco, sceglie la katana, un qualcosa che in Die Hard: Trappola di cristallo (1988), diretto da John McTiernan non si sarebbe mai visto.
Katane a parte, Pulp Fiction ne ha di scene memorabili, ma ci sentiamo di citare la celebre, romantica, e bellissima sequenza di ballo tra Mia Wallace (interpretata da Uma Thurman) e Vincent Vega (interpretato da John Travolta), chiaro omaggio alla sequenza di ballo di 8½ (1963) di Federico Fellini. Pellicola con cui Tarantino attinge a piene mani alla Nouvelle Vague, da Tirate sul pianista (1960) e Jules e Jim (1962) di François Truffaut, fino a Questa è la mia vita (1962) e Bande à part (1964) di Jean-Luc Godard di cui Mia Wallace rievoca il personaggio di Anna Karina, fino alla stessa narrazione ispirata in parte a I tre volti della paura (1963) di Mario Bava.
Jackie Brown (1997): Louis? Louis? Louis?
Jackie Brown (1997) è certamente una delle pellicole più interessanti di Tarantino, seppur all’epoca non ottenne lo stesso consenso dell’opera precedente – ma di Pulp Fiction non ne nasce uno ogni vent’anni d’altronde. Una narrazione più lineare, che grazie alla sua interprete Pam Grier, attinge a piene mani, tra le altre cose, al cinema della Blaxploitation come Sesso in gabbia (1971) e Foxy Brown (1974) di Jack Hill ma soprattutto Coffy (1973) di Roy Ayers.
Celebre, in tal senso, la sequenza dello scambio di denaro al centro commerciale, rievocante nella sua vivacità narrativa Rashomon (1950) di Akira Kurosawa, pellicole nel cuore di Tarantino che da cui “ruba” spesso. Ma noi, nell’indicare una scena in particolare, ci sentiamo di proporre la conclusione della sopracitata sequenza, con il povero Louis (interpretato da Robert De Niro), che reagisce in modo scomposto all’insopportabile Melanie (interpretata da Bridget Fonda) e al suo continuo blaterare.
Kill Bill Vol.1 & 2 (2003-2004): la Sposa, gli 88 Folli e l’epica della narrazione secondo Quentin Tarantino
Qui ci troviamo dinanzi all’opera della definitiva maturazione del regista italoamericano, con Kill Bill infatti, Tarantino va oltre il gangster movie mettendo in scena un’autentica epica narrativa in due parti – quelle Vol.1 (2003) e Vol.2 (2004) poi rimontate in The Whole Bloody Affair (2011) con cui poter ammirare senza limitazioni il viaggio di vendetta della Sposa (interpretata da Uma Thurman) – che nel suo dipanarsi, mette in scena una struttura narrativa similare a Pulp Fiction (1994) ma ampliata su vasta scala sia a livello narrativo che nella posta in gioco alla base del conflitto. Una narrazione a metà tra la Lady Snowblood (1973) di Toshiya Fujita, e La Sposa in Nero (1968), diretto da François Truffaut impacchettata in una moltitudine di citazioni di cui, le pellicole sopracitate, son giusto la punta dell’iceberg.
Di Kill Bill ci sentiamo di indicare la celebre sequenza del duello tra gli 88 Folli (che in realtà erano molti meno) e la Sposa in Vol.1, una delle più iconiche della storia del cinema contemporaneo, con una Uma Thurman in assoluto stato di grazia – in attesa di un potenziale Vol.3 con (magari) Maya Hawke.
Grindhouse: A prova di morte (2007) – Stuntman Mike e la Dodge Charger
Il progetto narrativo con l’amico Robert Rodriguez che va a rileggere la Blaxploitation, diventa occasione per Tarantino per incasellare il suo quinto film da regista e sceneggiatore. Indubbiamente il meno riuscito nella sua vasta e immensa carriera, ma nella sua natura da b-movie, rievoca un’immaginario cinematografico a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quello di Duel (1971) di Steven Spielberg e e Punto Zero (1971) di Richard C. Sarafian, e in generale di un modo di fare cinema con pochi mezzi capaci di valorizzare idee semplici e intramontabili. L’occasione è ghiotta per Tarantino, per citare alcune pellicole simbolo di quel periodo, a partire da Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965) diretto da Russ Meyer, fino a Bullitt (1968), diretto da Peter Yates nella targa della Dodge Charger di Stuntman Mike (interpretato da Kurt Russell), Getaway – Il rapinatore solitario (1972) e Convoy – Trincea d’asfalto (1978), di Sam Peckinpah.
La scena che abbiamo scelto è l’atto conclusivo di Grindhouse: A prova di morte, quattordici minuti di fuga disperata con un’interessante cambio di ruoli in scena con Stuntman Mike che da cacciatore diventa cacciato, e le ragazze (interpretate da Rosario Dawson, Tracie Thoms, Mary Elizabeth Winstead e Zoe Bell) che da ennesime e potenziali vittime, si vendicano, mettendo fine alla furia omicida del criminale.
Bastardi senza gloria (2009): Quentin Tarantino e lo strudel con panna
Il 2009 è l’anno di Bastardi senza gloria, ennesima rivisitazione di un genere da parte di Quentin Tarantino, in particolare il cinema bellico degli anni Settanta a partire dal titolo originale Inglorious Bastards, omonimo del film di Enzo G. Castellari che in Italia venne rilasciato sotto il nome di Quel maledetto treno blindato (1978). Bastardi senza gloria non è esattamente la pellicola più verosimile e fedele ai fatti storici nella storia del cinema, sono molti infatti i fatti ucronici, a partire dal Colonnello Hans Landa (interpretato da Christoph Waltz), fino agli eventi del terzo atto, con l’agguato di Shosanna (interpretata da Mélanie Laurent) agli Stati Generali del Partito Nazista in una sequenza maestosa per messa in scena, fortemente rievocatrice de Il Mago di Oz (1939), diretto da Victor Fleming – ma chiaramente senza alcun riscontro nella Storia.
Ciononostante il valore della pellicola a livello cinematografico è altissimo, con un intreccio narrativo – liberamente ispirato a Hitler – Vivo o Morto (1942), di Nick Grinde – che tiene con il fiato sospeso fino alla fine, e una scrittura capace di unire momenti brillanti ad altri fortemente drammatici. Bastardi senza gloria diventa l’occasione per Tarantino, per saccheggiare l’immaginario collettivo del cinema degli anni Venti e Trenta, da La corazzata Potemkin (1925), diretto da Sergej M. Eisenstein, fino a Metropolis (1927), diretto da Fritz Lang (uno dei film preferiti dal Führer tra l’altro), e al sopracitato Il Mago di Oz. In Bastardi senza gloria il ruolo della citazione cinematografica, oltre a essere omaggio, diventa anche un modo per scrivere e ricordare la storia, con Il corvo (1943), diretto da Henri-Georges Clouzot – film censurato dall’invasione Nazista in Francia – che Shosanna sostituisce con Trionfo della volontà (1935), diretto da Leni Riefenstahl – film, invece, di propaganda filo-nazista.
La scena scelta per voi ovviamente, non può che essere l’incontro dopo anni di distanza dallo sterminio della sua famiglia nel 1941, tra il Colonnello delle SS Hans Landa e Shosanna, dove la grande abilità registica di Tarantino riesce a tirare il massimo della suspense da una semplice doppia ordinazione a base di strudel con panna. Il tutto valorizzato da un allora semi-sconosciuto Christoph Waltz in assoluto stato di grazia, capace tra questo film e il successivo Django Unchained (2012), di consacrarsi come uno dei migliori attori in circolazione (seppure ancora incapace di ripetersi dopo la doppietta “tarantiniana”).
Django Unchained (2012): Quentin Tarantino a cena con Calvin Candle
Il settimo film di Quentin Tarantino è forse quello più riuscito della sua ipotetica “Trilogia del Tempo” di Leoniana memoria, nonché il primo della duologia assieme a The Hateful Eight (2015), volta a omaggiare gli Spaghetti-Western di Sergio Corbucci. Già dal titolo della pellicola, e dalla canzone utilizzata nei titoli di testa, è abbastanza chiaro il riferimento a Django (1966), con Franco Nero (presente in Unchained in un piccolo cameo) nei panni di un cowboy solitario che si trascina dietro una bara al cui interno è contenuta un fucile mitragliatore – sulla falsariga dell’Uomo senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro di Sergio Leone. Fino alla canzone di chiusura, che invece va a omaggiare la variante Spaghetti-Western più scanzonata de Lo chiamavano Trinità (1970), diretto da E.B. Clucher, con protagonista Terence Hill.
In Django Unchained, non mancano citazioni di altre pellicole, a partire ad esempio dalla comica sequenza degli incappucciati bianchi che rievoca Nascita di una nazione (1915), diretto da David Wark Griffith, passando per Rapacità (1927) di Erich Von Stroheim, I sette samurai (1954), di Akira Kurosawa, Il Buono, il brutto e il cattivo (1966) e Giù la testa (1971), diretti da Sergio Leone, nella battuta finale di Stephen interrotta sul più bello e nell’esplosione di Candyland.
La scena che andiamo a segnalare del primo western di Quentin Tarantino, non può che essere la celeberrima scena della cena a Candyland, dove un infervorato Calvin Candle (interpretato da Leonardo Di Caprio) fa una lezione di frenologia dal chiaro sottotesto razzista, a dei basiti Dr Schultz (interpretato da Christoph Waltz) e Django (interpretato da Jamie Foxx). Scena di rara bellezza nel panorama cinematografico contemporaneo, valorizzata da una gara di bravura tra Di Caprio e Waltz, tanto da essere nominati entrambi agli Oscar per il Miglior attore non protagonista 2013. A spuntarla però sarà proprio l’austriaco.
Un ultima curiosità a proposito di Django Unchained è data dalla parte di Django, andata a Jamie Foxx, è vero, ma che Tarantino scrisse tenendo a mente Will Smith. L’ex Willy di Bel-Air tuttavia, declinò l’offerta dopo alcuni colloqui con il regista, perché riteneva che “l’unico modo per realizzarlo sarebbe stato se fosse stata una storia d’amore, non di vendetta. Non credo nella violenza come reazione alla violenza. Quindi quando lo vedo, penso ‘No, no, no. Deve essere per amore’.”
The Hateful Eight (2015): il grande silenzio di Quentin Tarantino
Arriviamo così all’ottava pellicola di Quentin Tarantino, quel The Hateful Eight che continua a omaggiare gli Spaghetti-Western di Sergio Corbucci e in particolare Il grande silenzio (1968), con protagonisti Jean-Luc Trintignant e Klaus Kinski, in un innevato e affascinante western d’annata. Una pellicola atipica per il suo genere The Hateful Eight, in una struttura narrativa il cui intreccio prevede una sorta di Dieci piccoli indiani (1939) di Agatha Christie che incontra La foresta pietrificata (1936), di Archie Mayo, in salsa western, attraverso una scansione per capitoli dell’andamento non lineare proseguendo così il lavoro di destrutturazione delle ordinarie forme di narrazione, iniziato con Le iene ventiquattro anni prima.
Gli omaggi western non si esauriscono alla pellicola di Corbucci, ma proseguono ad esempio nell’uso della diligenza in apertura che rievoca Ombre rosse (1939) e nella frase chiave di John Ruth (interpretato da Kurt Russell) che è la stessa del Ethan Edwards di John Wayne in Sentieri Selvaggi (1956) – entrambi diretti da John Ford. E ancora nel nome della diligenza per Red Rock, lo stesso de Quel treno per Yuma (1957) diretto da Delmer Daves e nella scelta del titolo che rievoca I magnifici sette (1960), diretto da John Sturges – ma come sempre, gli omaggi inseriti da Tarantino nelle sue pellicole sono infiniti, e si nascondono anche in piccole cose.
La sequenza che abbiamo scelto per voi infatti, è proprio quella d’apertura, in un misto citazionista in cui Tarantino unisce gli ambienti del sopra citato Il grande silenzio (1968) alla diligenza di Ombre rosse diretta verso Red Rock, con a bordo il Magg. Marquis Warren (interpretato da Samuel L.Jackson), John “il boia” Ruth e la criminale Daisy Domergue (interpretata da Jennifer Jason Leigh); il tutto accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone, premiata agli Oscar 2015.