L’avventura: recensione del film di Michelangelo Antonioni
Recensione de L'avventura, primo capitolo della trilogia dell'incomunicabilità nonché capolavoro-manifesto del suo cinema, con cui Antonioni mette in scena personaggi corrotti mossi da sentimenti egoistici.
L’avventura, film del 1960 diretto da Michelangelo Antonioni, vincitore del premio speciale della Giuria a Cannes ’59, fu comunque accolto abbastanza tiepidamente alla Croisette e dopo il rilascio nelle sale italiane, ma già due anni dopo, la rivista americana Sight & Sound lo definì come il film più imprescindibile dai tempi di Quarto Potere (1941) di Orson Welles. La pellicola con protagonisti Monica Vitti, Gabriele Ferzetti e Lea Massari, è considerata più dai critici che dallo stesso Antonioni – che li concepì sempre come film unici e irripetibili – come la prima parte della cosiddetta Trilogia dell’Incomunicabilità, che proseguirà con La notte (1961) e L’eclisse (1962) – così commentata dal maestro del cinema Martin Scorsese alla FF13: “Antonioni ha realizzato una trilogia con L’avventura, La notte e L’eclisse: le linee di composizione che usa come narrazione spiegano l’alienazione, la disperazione dell’animo. Da lì Antonioni ha ridefinito il linguaggio: arrivando infine a Zabriskie Point. È un modo diverso di vedere il mondo”.
Un film di così tale importanza nella storia del cinema mondiale che Scorsese, durante lo stesso incontro, aggiunse: “Essere cresciuto nell’Età d’Oro del cinema mondiale mi ha permesso di imparare a osservare le inquadrature, anche a lungo. Ho imparato a guardare questo cinema guardando ripetutamente L’avventura, cercando di capire anche l’uso dello spazio, completamente differente: al tempo era per me come guardare l’arte moderna.” – e continua sottolineando il valore estetico della pellicola – “Se guardate bene ne L’avventura c’è una narrativa di luce, spazio, oscurità, che sembra arte analitica. Mette in scena uno dei finali più belli in assoluto, piango ogni volta che lo guardo.”
Durante una gita tra amici alle Eolie, tra cui la migliore amica Claudia (interpretata da Monica Vitti), Anna (interpretata da Lea Massari), dopo aver lamentato qualche sofferenza sul suo rapporto con Sandro (interpretato da Gabriele Ferzetti) e sul suo sentirsi attanagliata dalla routine di un imminente matrimonio, sparisce nel nulla. Iniziano le ricerche. Questo l’incipit alla base de L’avventura (1960).
L’avventura: il mistero della sparizione di Anna come prologo funzionale alla narrazione
Seppur ponendo il focus narrativo per tutta la prima mezz’ora di pellicola su Anna e sul suo malessere, con cui esplorare la sua anima ribelle, la sua sparizione avviene così, nel nulla, senza colpo ferire e risultando a oggi uno dei misteri cinematografici più famosi della storia del cinema. Il ruolo di Anna, seppur dal minutaggio ridottissimo diventa funzionale nel suo opporsi a Sandro, archetipo dell’uomo di bassi valori, terreno, vittima dei piaceri carnali e (molto) poco spirituale. Ne viene fuori così una riflessione sulle relazioni umane e l’incomunicabilità tra uomo e donna, dando il via all’effettiva narrazione alla base de L’avventura.
La sparizione di Anna infatti, l’assenza fisica del suo personaggio del quale si percepisce comunque la presenza, rappresenta il motore narrativo alla base di tutto il primo atto. Perché se è vero che lo potremmo considerare come il primo effettivo turning point a livello di sceneggiatura, nell’economia della narrazione, la sua assenza dà il via a L’avventura vera e propria. La ricerca di Sandro e Claudia infatti, diventa occasione, per Antonioni, di scandagliare le ipocrisie di facciata e la corruzione della società borghese – dove l’Amore e i sentimenti elevati, lasciano il posto alla bramosia dei corpi, in sentimenti lascivi fatti di parole vacue.
Una critica alla borghesia resa in modo didascalico ma efficace, anche nel ruolo del pittore Goffredo (interpretato da Giovanni Petrucci), simulacro in sé del moto alla base delle azioni degli stessi, dove l’arte o ciò che si spaccia come tale, viene corrotta dal raggiungimento di un tedioso bisogno carnale – e che troverà il suo compimento massimo nella sequenza conclusiva.
L’avventura – Sandro e Claudia, un’unione alienante resa immortale da un Antonioni in stato di grazia
Dallo svanire di Anna e nei suoi tentativi infruttuosi di ricerca, infatti, si realizza una ricerca calcolata del corpo di Claudia da parte di Sandro, ora sfiorandole la mano, rubandole un bacio, odorandole i capelli, abbassando così lentamente le sue difese con il proseguo della narrazione in un continuo gioco al rialzo della posta in gioco ne L’avventura. Una ricerca spasmodica, quella di Sandro, volta unicamente al soddisfacimento del bisogno carnale e di un dichiarato pragmatismo con cui celare egoismo e povertà di sentimenti nel raggiungimento di un’unione di fatto, espressione massima della disperazione degli individui.
Suggestiva in contraltare l’evoluzione in negativo di Claudia – donna vivace ma apparentemente di buoni sentimenti – in una lenta discesa negli inferi dove, la preoccupazione delle sorti di Anna, va via via ad affievolirsi fino quasi a rinnegarne l’esistenza. Abbracciando così una progressiva e drammatica accettazione della solitudine condivisa di un’alienazione di cui lei stessa si vergogna, ma che nella debolezza che ne scaturisce sente il bisogno di farne parte.
La regia di Antonioni ne L’avventura, lavora tutta sulla ricerca ora della profondità di campo con cui esplorare l’ambiente narrativo delle Eolie e delle ville dei borghesi, ora tramite piani medi e primi piani per valorizzare l’aspetto intimo dei suoi protagonisti nello spingere delle loro azioni a cornice di un perfetto dramma esistenziale. Il tutto mediante una messa in scena che, grazie a un sontuoso bianco e nero, si compone come fosse arte analitica, dove l’uso delle luci e delle ombre, diventano parte integrante nel tracciare un disegno d’alienazione dell’individuo nel quale, i personaggi in scena, si servono di parole e fatti che parlano di sentimenti mai realmente condivisi.
La sceneggiatura de L’avventura infatti, nel dipanarsi di una struttura narrativa dall’incedere lineare e dall’intreccio elaborato – seppur dal ritmo compassato – va data enorme importanza alle parole messe in bocca a Sandro e Claudia. Antonioni e Guerra scelgono una visione dialogica rievocante (in parte) il messaggio che sarà poi alla base de Frammenti di un discorso amoroso (1977) di Roland Barthes; parole belle a sentirsi, ma vuote, il cui contesto d’animo corrotto creano nausea nell’orecchio dello spettatore pienamente consapevole del dramma egoistico messo in scena.
L’avventura: uno dei più grandi finali della storia del cinema
Fino al raggiungimento della già citata sequenza conclusiva de L’avventura, dove la corruzione d’animo e l’egoismo hanno preso – nel cuore dei protagonisti – il posto della comprensione e dell’Amore, dove l’incomunicabilità dei sentimenti di uomo e donna si evolve sino a diventare celata disperazione, in un finale che nella sua brutale sincerità d’azioni certifica la bontà dell’opera di Antonioni per quella che, di fatto, è una delle pellicole più rilevanti della storia del cinema, non solo italiano, ma mondiale.