Potere assoluto: recensione del film di Clint Eastwood
Il film del regista americano fra ordine-disordine e vedere-fare.
Clint Eastwood prende il genere thriller e lo sfida attraverso una grande semplicità ed eleganza che rivelano una grande sicurezza e allo stesso tempo conoscenza del mezzo cinematografico. Lo spettatore fin dal principio è consapevole di tutti i particolari, ma in Potere assoluto il regista non si ferma e va oltre giocando con gli sguardi e la moralità appartenente al potere assoluto. Il film racconta del ladro Luther Whitney (Clint Eastwood), involontario testimone di un “super” omicidio in cui è coinvolto il presidente degli Stati Uniti, da qui inizierà una serie di escalation che andranno a coinvolgere il ladro gentiluomo anche sul piano familiare.
Il potere assoluto di Clint Eastwood
Fin dai tempi del suo debutto alla regia Eastwood ha sempre ruotato intorno allo stesso film facendo, forse, solo dei piccoli cambiamenti. Ogni suo lavoro si professa da un lato come la storia di un conflitto tra ragione inteso come un ordine precostituito, dall’altro lato invece troviamo la passione, il disordine e la natura istintuale. Raramente Eastwood (qui nei panni di produttore, regista e attore protagonista) non prende le parti dell’ordine, ma piuttosto si colloca in una zona senza un confine ben definito. I suoi personaggi riconoscono l’importanza della razionalità e quel corretto funzionamento della vita quotidiana, ma allo stesso tempo si afferma la necessità di un cambiamento improvviso, anche folle e potenzialmente distruttivo: un nuovo soffio vitale verso un’umanità troppo inquadrata e fatalmente prigioniera della routine.
L’antieroe eastwoodiano è messaggero di chiaroscuri circondato da un mondo fatto di un’apparenza ingannevole e oscura. La prima battuta che proferisce è io non mi arrendo mai, un cittadino con il senso del dovere che esige verità e giustizia a qualsiasi costo. Un ladro-gentiluomo che riscatta non solo i propri fallimenti con prole e nazione, ma si specchia negli uomini d’onore che soccombono, irrimediabilmente, sotto il peso mefitico dell’ingranaggio del potere assoluto. Una sceneggiatura dal sapore amaro mitigata da una componente autoironica, visibile nel regista e personaggio, e dall’altro lato il falso lieto fine perché al popolo lo scandalo non va rivelato: in fondo ogni gregge ha bisogno del proprio pastore. In Potere assoluto tutto è apparenza, basti pensare alla figlia che scopre di essere stata sempre sorvegliata da un premuroso genitore mai fisicamente presente e condannato al solo voyeurismo.
Lo sguardo come vero Potere assoluto
È proprio nello sguardo che si gioca un ruolo centrale durante il corso della pellicola, una vera e propria esortazione metacinematografica ad agire, rivolta al “guardone” e di conseguenza allo spettatore: i presidenti sono “scaduti” e/o caduti. Oggi quello che rimane è, forse, l’integrità morale del cittadino comune che può essere anche il delinquente più incallito.
Il film, così facendo, avvia uno scontro fra due modi di concepire l’esistenza quella del vedere e del fare. Lo sguardo cinematografico è messo a tema fin dal principio, in cui il vedere e non essere visto la fanno da padrone nella sequenza della rapina. Il ladro che assiste a un omicidio e se ne va senza fare nulla così come vede agisce fotografando, diventando così il genitore che segue a distanza la vita di sua figlia. Ad un certo punto della sceneggiatura arriva però la svolta e, allo stesso tempo, il conflitto: il discorso in TV del Presidente. Se al principio il protagonista si limitava a vedere e rimaneva distante o disinteressato, l’azione razionale del vedere il messaggio alla TV permette il sopravvento della parte istintuale, tipica dei film eastwoodiani, sulla parte razionale. Dal vedere si passa al fare e alla vendetta intesa come espressione per eccellenza dell’istinto pulsionale; permettendo di ripristinare un nuovo ordine non solo morale, ma anche emotivo fra un padre e una figlia.
Il regista certo non confezione il suo miglior film ma prende il film di genere consolidato del giallo, con venature di spionaggio, per farne un film stimolante dove ordine e disordine vanno oltre la mera sceneggiatura e pervadendo così il cinema di genere stesso. L’interrogativo che persiste è quello se sia migliore vedere o fare, ma la risposta forse è rintracciabile nella sequenza allegorica del ballo in cui tutto si intreccia: vedere la collana della morta, e fare, tramite lo scambio di battute sussurrate; comprendendone la perfetta fusione delle due azioni e come siano indispensabili entrambe per la convivenza esistenziale.