Venezia 76 – Mosul: recensione del film di Matthew Michael Carnahan
Mosul è il film di un microcosmo che non rinuncia a descrivere il caos del macrocosmo mediorientale, affollato e insanguinato da continue guerre ed alleanze.
Nel terrificante teatro mediorientale odierno, ben poche città sono state più citate, studiate e sono diventate tristemente famose di Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, con più di un milione di abitanti e diventata per moltissimo tempo uno dei simboli del dominio dell’ISIS nell’ex feudo di Saddam Hussein.
Nel 2017 la città è tornata ad essere nelle mani delle forze regolari, e i miliziani dello Stato Isliamico sono stati sconfitti e ricacciati dentro confini sempre più angusti, e gran parte di questa vittoria è stata dovuta al coraggio, l’abnegazione e lo sprezzo del pericolo dei membri della squadra SWAT di Nineveh, tra i più feroci nemici dei fanatici islamici.
Mosul, diretto da Matthew Michael Carnahan (ex sceneggiatore di World War Z e The Kingdom) si collega sicuramente a documentari usciti sullo tema a firma di Daniel Gabriel come Life After Daesh e l’acclamato omonimo documentario Mosul, ma in questo caso si svolta verso la strada della fiction per illuminarci sugli orrori di una guerra selvaggia, senza quartiere e senza pietà.
E, con alle spalle come produttori i mitici fratelli Russo, Carnahan confeziona un war-movie di grandissimo livello, capace di reggere benissimo il confronto con tanti epigoni americani ed europei, anzi di superarli quanto ad onestà e realismo.
Mosul: un film ispirato a fatti realmente accaduti
Con un cast di attori che comprende Suhail Dabbach, Waleed Elgadi, Adam Bessa e Is’Haq Elias, l’iter ci guida da subito nei selvaggi scontri tra le forze di polizia, l’esercito e i miliziani islamici, dove al termine di uno di questi il giovane Kawa (Bessa), recluta della polizia disorganizzata, verrà reclutato dalla Swat comandata dall’esperto e carismatico Jasem (Dabbach).
La missione a cui stanno lavorando non è chiara, ma in breve tempo Kawa si troverà alla prese con scontri terrificanti, cecchini, bombe, battaglie ravvicinate dove sovente ai mitra si sostituiscono i coltelli e le mani.
Il tutto dentro un inferno rivoltante dove la morte si può nascondere dietro ogni muro, sopra ogni minareto o appena svoltato l’angolo, e nella quale sguazzano questi soldati che della morte attendono la visita con rassegnata disperazione, ma decisi a distruggere un nemico che in quella Mosul a molti di loro ha tolto famiglie, case e ricordi.
Tutte cose che vogliono riprendersi, pronti a lottare l’uno per l’altro e a morire l’uno per l’altro, senza schiamazzi o retorica, e senza che questo ne addolcisca una natura sovente terrificante a causa della guerra.
Mosul si nutre di una regia assolutamente perfetta da parte di Carnahan, capace di confezionare un’odissea urbana nauseante e coerente, in cui lo spettatore è perennemente in tensione, a cui non è lasciata alcuna tregua.
La sceneggiatura segue ciò che a suo tempo maestri del calibro di Aldrich, Fuller e Peckinpah hanno elaborato: un gruppo di uomini duri, tenaci, assassini per caso, che cercano di sopravvivere, di fare ciò che sentono e credono giusto, costretti a morire uno alla volta contro un nemico letale ma umano allo stesso modo.
Il nemico ha i volti dei tanti che per paura o cecità si sono fatti travolgere da un ISIS che appare per quello che è: barbarico, folle, culla di esaltati senza freni, senza moralità e pietà, sovente vili. E riesce a farceli odiare benissimo.
Mosul trae ispirazione a fatti realmente accaduti, descritti nell’articolo The Desperate Battle to Destroy ISIS apparso sul New Yorker nell’ottobre del 2016, e reale sembra per ogni istante, ogni momento.
Non vi è alcuna retorica nel mostrare l’odissea del giovane Kawa, che in breve diventa anch’egli un uomo d’armi guidato da un Jasem che ha sempre più problemi a tenere testa a questo ragazzo invecchiato troppo in fretta.
La bellissima fotografia del nostro veterano Mauro Fiore (tra i migliori al mondo) sfrutta appieno i toni ocra, si fa polverosa tra la polvere, meraviglia per la maestria con cui ombre e luci si fondono in una terra di nessuno in eterno movimento, ora vuota ora sovraffollata di uomini, donne e pallottole.
Il pericolo è in strade piene di macerie, battute dal sole, sui tetti, tra i vicoli, al chiuso, nell’ombra, nei ricordi di quella vita civile che fu, rivive nelle piccole cose, uno specchio, una televisione, un walkman.
Film di un microcosmo che non rinuncia a descrivere il caos del macrocosmo mediorientale, affollato e insanguinato dalle continue guerre ed alleanze tra sciiti, sunniti, curdi, iraniani, iracheni e via discorrendo, Mosul ha però il pregio di non ambire ad essere esperienza cinematografica universale.
Questa non è la guerra, è una guerra, la guerra per distrugge l’ISIS, per fermare un cancro che rende ogni giorno che esiste il mondo dell’Islam più distante dal suo futuro, dalla sua storia, da chi ne fa parte.