Venezia 76 – Un divan à Tunis: recensione del film di Manele Labidi

Recensione di Un divan à Tunis, film presentato a Venezia 76 che racconta la ricerca di identità della sua protagonista e di un paese come la Tunisia.

Un Divan à Tunis ha come protagonista la bella Selma Derwish (Golshifteh Farahani), psicanalista che dalla moderna Parigi è tornata nella natia Tunisi, dopo la Primavera Araba, decisa a continuare lì la sua attività professionale, in un paese dove si parla molto per dire poi infine nulla e dove tutti sembrano voler celare la propria vera natura dietro una maschera di convenienza e ipocrisia.

Aperto il suo studio, Selma si troverà a che fare con parenti costernati, poliziotti inflessibili e un po’ ridicoli, e soprattutto con una marea di casi disperati, uomini e donne che solo faticosamente cominceranno ad aprirsi con lei, più per disperazione che per fiducia. Ma davvero è lì il suo posto? Davvero tornare in Tunisia, mettere su uno studio improvvisato, fare stendere quelle persone un po’ strane su quel divanetto è ciò che vuole? Perché è tornata?

Tutte domande a cui verrà data risposta in una commedia frizzante, divertentissima e originale, che getta una luce assolutamente nuova su un paese tuttora alle prese con un cambiamento culturale a dir poco tempestoso.

Un divan à Tunis: Manele Labidi rende universale la femminilità

Manele Labidi può essere assolutamente fiera della sua opera, un film incredibilmente vivo, intelligente, che non annoia mai e che ha nella Farahani una protagonista in cui è facilissimo identificarsi, e che si fa portatrice di tutti quei pregi e quei difetti che normalmente affibbiamo a chi ha a che fare professionalmente con la mente altrui. Un Divan à Tunis è popolato da simpaticissime creature, dal detective un po’ orso e timido, alla parrucchiera ciarliera, dalla giovane ribelle e anticonformista, al povero fornaio che rifiuta la sua omosessualità… e tutti rappresentano uno spaccato di un paese che si comprende essere a metà tra modernità e conservatorismo.

La Tunisi dipinta da questo film è un grande paesotto ciarliero e fracassone, abitato da funzionari che più che inefficienti sono povere canaglie tristi e sfortunate, in cui vi è la profonda vergogna di chiedere aiuto, di essere ciò che si è. Ciò che sorprende della bella sceneggiatura della Labidi, è il fatto che riesca a rendere universale un film totalmente spostato sul versante femminile, a farci legare con ogni singolo personaggio. E questo succede veramente di rado.

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Un divan à Tunis: un film speranzoso che racconta le debolezze di un Paese alla ricerca di identità

Nessuno è cattivo in Un Divan à Tunis, neppure quegli sbirri che più che maschilisti sono goffi, insicuri, pasticcioni e poco svegli, neppure quelle impiegate statali lasciate sole in stanze che si fanno strette strette.

In mezzo all’iter narrativo emerge, grazie all’uso sapiente di dialoghi ed interpreti, anche il dubbio, il rovello interiore di un popolo che liberatosi della dittatura di Zine El-Abidine Ben Ali, ancora non ha capito chi è e dove sta andando. La distanza culturale tra l’Europa degli emigrati, degli scappati, e quella di chi è rimasto nella dissestata nazione, è ridicolizzata, resa pura barriera della mente, in nome di un comune sentire e comune capire che è descritto come la chiave per comprendersi e accettarsi.

Sicuramente un film che dà speranza, che diverte e commuove quando rivela le debolezze, i traumi, le sofferenze che la quotidianità e le regole della società ti costringono a nascondere sotto il tappeto della tua anima.

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In tutto e per tutto Un Divan à Tunis è anche una sorta di road-movie interiore, un viaggio dentro l’animo umano, quello soprattutto di una protagonista che sovente scopriamo antipatica, acida, insicura e arrogante. E che col tempo capirà che forse ha sottovaluto le sofferenze degli altri e sopravvalutato la sua importanza nella società, non nella vita di chi le sta affianco.

A tutti gli effetti è forse una commedia sull’empatia, su quanto sia difficile lasciarsi andare e soprattutto accettare che siano gli altri a lasciarsi andare, e prendersi la responsabilità di ascoltare e sentire, di metterci in gioco con chi ci sta attorno.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.6