Venezia 76 – Moffie: recensione

Recensione di Moffie, film sull'inconciliabilità tra esercito e omosessualità, dove sono la musica e la riservatezza del protagonista a parlare.

L’esercito e l’omosessualità. Due concetti estranei, inconciliabili. Due identità che non possono incontrarsi, impossibili da immaginare unite in un ambiente tanto brutale, inspiegabilmente sadico, portato a ridicolizzare la compassione, la debolezza e, troppe volte, la vita stessa. È nella discordanza della leva militare e dell’attrazione per il medesimo sesso che prende forma Moffie. L’insulto sudafricano, lo strumento della vergogna utilizzato per denigrare gli omosessuali, urlato a gran voce tra le fila di quei giovani costretti per un breve periodo ad arruolarsi nel Paese oppresso dall’apartheid, che devono, anche contro la loro volontà, difendere.

Moffie è anche il titolo del quarto film del regista Oliver Hermanus, alla scrittura del suo dramma nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, insieme allo sceneggiatore Jack Sidey.

È il 1981. È il periodo in cui ai ragazzi di sedici anni viene chiesto di sacrificare parte della loro giovinezza per imparare a difendere le sorti del loro paese. Anche se sono una minoranza, anche se sono pochi i bianchi che però riescono a mantenere in piedi l’establishment di quella terra, i loro ragazzi devono comunque partire per imparare a difendere il confine, per tenere lontano il nemico nero nato e cresciuto, da sempre, in quei territori. Anche Nicholas (Kai Luke Brummer) ha l’obbligo di partire, ma anche quello di reprimere se stesso, di non mostrare la sua vera natura. Perché chi è omosessuale finisce nel reparto ventidue. A chi è omosessuale viene dato del moffie. Allora Nicholas dovrà mantenere il proprio segreto, tra una rivista pornografica con cui far felici i suoi amici e un sentimento per un suo compagno da dover seppellire.

Moffie: il calore della fotografia di Jamie D. Ramsay e della regia di Oliver Hermanus

Moffie, cinematographe.it

È decisamente calda la fotografia di Jamie D. Ramsay. Calda come il sole che colora fino ad arrossire il viso dei giovani soldati, calda come i loro corpi sudati, martoriati, che riescono a trovare il tempo di svagarsi tra una partita a pallavolo e una lotta greco-romana improvvisata. Ma è il calore interiore che Ramsay e il suo regista Oliver Hermanus vogliono ricercare, che nasce primariamente dai raggi di quella regione e che finisce per avvolgere la crescita forzata e vessata dei suoi personaggi. Una luce che sporca la pellicola del cineasta sudafricano, per riportane il temperamento selvaggio pressante nella caserma, che può però nascondere una carezza inaspettata, palpitante come un raggio di sole.

Nell’esplorazione dell’individualità del protagonista Nicholas, è il ragazzo stesso a confrontarsi con una passione che non si addice ai dettami militari, ma che come la fattura del film non trova mai la veemenza del gesto, tendendo piuttosto alla dolcezza della scoperta di una più profonda tipologia di affetto. Micro-espressioni del protagonista di Kai Luke Brummer, che lascia al suo volto il compito di esplicitare tutto ciò che gli si alimenta al di dentro, non forzando il tono sulla drammaticità degli eventi, ma andando di pari passo con l’emotività trattenuta, eppure vibrante del film.

Moffie: la musica e le ferite di un film che rischia di perdere il proprio coraggio

Moffie, cinematographe.it

E, a sottolineare i cambiamenti d’animo e di tono della pellicola, è la continua presenza della colonna sonora di Braam du Toit, sempre diversa in ogni sua nota, composta per adattarsi a ogni stravolgimento piccolo o grande della condizione del protagonista. Melodie inserite con sicurezza per affrontare momento per momento, anche quando il film, proseguendo, perde un po’ della sua attitudine, confondendo più di una volta sul punto a cui voler arrivare. Tanto l’omosessualità quanto la crudeltà banale dell’esercito si protraggono, infatti, sfibrandosi nei propri intenti, pur soddisfando comunque con il loro epilogo, che avrebbe dovuto forse avere più coraggio dei suoi stessi soldati.

Non è, comunque, una sorta di fiacchezza finale a fare di Moffie un film senza un proprio senso narrativo, estetico, morale. Un’opera che si contiene per dar voce alle musiche e ai sottotesti ben più significativi delle punizioni dei sergenti. Per ribadire l’assurdità di una violenza che rivolgiamo verso gli altri, ma nella quale rimaniamo allo stesso tempo incastrati, tentando il modo di non lasciarci sopraffare, ma rischiando di dover portare dentro delle ferite che è quasi impossibile rimarginare.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.9