Venezia 76 – State Funeral: recensione
Recensione di State Funeral di Sergey Loznitsa che, utilizzando materiali inediti, realizza un'operazione interessante, ma non per questo adatta alla sala.
È sempre affascinante approcciarsi a del materiale d’archivio. Scovare filmati inediti di un tempo e un’epoca più o meno lontana, maneggiarli per farne strumento con cui riportare l’autentica impronta di un’epoca, cercare di analizzare quest’ultima attraverso lo studio attento e approfondito di quelli elementi che l’hanno composta. È il lavoro che sembra aver svolto Sergei Loznitsa con State Funeral, fuori concorso alla 76esima edizione della Mostra di Venezia, nel recupero del ricordo di un evento che segnò una svolta epocale nella storia della Russia, ribaltandone le sorti.
Nel suo nuovo State Funeral, il regista di Anime nella nebbia e I ponti di Sarajevo, si avvicina ai filmati inediti che riprendono lo stato di confusione, distrazione e instabilità sociale creati dopo la morte del dittatore russo Iosif Stalin. Una perdita che bloccò un’intera nazione, precisamente commossa dalla dipartita del politico, stipata in inquadrature che si riempiono di un numero incredibilmente alto di persone, tutte intente a onorare il passaggio dalla vita alla morte di una personalità che padroneggiò con pugno duro, ma venendo comunque pianto da un Paese riversato nelle strade e nelle piazze per idolatrarlo.
State Funeral: tra scene di commozione e retroscena della crudeltà
È nell’attrito tra storia conosciuta e immagini che contraddicono questa realtà che va giocandosi l’opera di Loznitsa, volendo contrapporre al terrore che il regine staliniano ha contribuito ad alimentare un messaggio stridente e ben più legato al concetto di fraternità nazionale. Una vicinanza a un uomo che, nel momento del suo addio, sembra non essere più lo stesso che ha oppresso per lungo tempo il proprio popolo, che lo ha terrorizzato con la minaccia dei gulag in cui si era obbligati ai lavori forzati. Piuttosto, ciò che passa da quelle tracce storiche, è il pianto per un compatriota adorato da tutti, un padre che lascia a se stessa la propria famiglia, che dovrà adesso varcare la soglia verso un futuro ignoto.
Un contrasto, però, che è la conoscenza previa dello spettatore a dover sviluppare, che nel visionare State Funeral senza alcuna indicazione di supporto alle immagini che vede passare, potrebbe non coglierne intuitivamente il senso. Non sarebbe nemmeno suo dovere farlo. Perché l’opera, ovviamente, è una critica che il regista e raccoglitore di fonti sceglie così di lanciare, ma è anche difficile pensare di poter resistere per un inverosimile numero di tempo davanti a delle prove di vita vissuta in quel 1953 senza sentirsi profondamente frustrati dalla loro lunghezza e ripetitività. Il messaggio che l’autore vuole far arrivare è, dunque, racchiuso solamente nel finale di questa estenuante parata di quadri presi dal vero, conclusione per la quale non è detto che gran parte di pubblico sia disposta ad aspettare.
State Funeral: le impressionanti immagini reali per un’operazione non da sala
Un’operazione che cerca di fare affidamento sulle impressionanti raffigurazioni del fiume di persone accorse alla camera ardente, alla cura al millimetro che organizza coreografie umane di un ordine e una compostezza assolute, ma che è impensabile poter tollerare per tutto quel tempo nel buio di una sala. Un’idea più da esposizione d’arte che da film non-fiction, che non si adopera nemmeno nel rifinire le scene tra loro con particolare guizzo artistico o creativo, mettendo soltanto i materiali in relazione tra loro.
Tra lacrime dei civili e quelle dei capi di Stato, tra infiniti momenti di musica solenne d’accompagnamento e discorsi o annunci all’altoparlante per omaggiare la figura di Stalin, State Funeral vuole rendere partecipe il pubblico in prima persona nella commemorazione del segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, ma vuole tenersi anche molto lontano da cosa significhi, veramente, prendere parte a un’esperienza cinematografica.