Pulp Fiction: spiegazione del film di Quentin Tarantino
Analisi e spiegazione di Pulp Fiction, il capolavoro del 1994 di Quentin Tarantino con protagonisti Uma Thurman, John Travolta e Bruce Willis.
Sono veramente poche le pellicole ad aver avuto un impatto così netto e incisivo nella storia del cinema da poter scatenare una piccola rivoluzione copernicana. È il caso ad esempio di Quarto potere (1941) diretto da Orson Welles capace di segnare il passaggio dalle strutture narrative classico-lineari del cinema classico, a quelle a-lineari ed elaborate del cinema moderno; o ancora Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas che ha reinventato il concetto d’esperienza cinematografica avvicinandosi sempre più – per estetiche e linguaggio – a un pubblico più giovane e futuribile. Non fa eccezioni Pulp Fiction (1994) diretto da Quentin Tarantino – esempio perfetto di intreccio narrativo elaborato che ha cambiato per sempre il cinema (e non) di genere.
Fu chiaro sin da subito, da quel maggio 1994 in cui Pulp Fiction venne presentato a Cannes vincendo inaspettatamente la Palma d’Oro, che Tarantino aveva creato un piccolo gioiello di scrittura. L’entusiasmo salì alle stelle, tanto che il pubblico lo definì immediatamente un instant-cult e i critici di tutto il mondo – in primis nei giganti del settore Roger Ebert e Gene Siskel – lo elogiarono a tal punto da paragonarlo, per il peso specifico che avrebbe avuto negli anni a venire, al sopracitato Quarto potere di Welles – seppur con un impatto di pubblico nettamente superiore, l’opera di Welles lasciò basito il pubblico poco avvezzo a virtuosismi narrativi nel lontano 1941.
Quentin Tarantino in 8 scene: le migliori dei suoi film
Pulp Fiction riuscì ad avere un impatto così forte nel cinema dell’epoca, da generare un’autentica ondata di fenomeni pseudo-pulp come Lock & Stock – Pazzi scatenati (1998) e Snatch – Lo strappo (2000) entrambi diretti da Guy Ritchie e Go – Una notte da dimenticare (1999) diretto da Doug Liman; e dalle narrazioni volutamente a-lineari come nel caso del magnifico City of God (2002) diretto da Fernando Meireles. In tutti questi casi però, mancava quel mix di ambientazione e brillantezza di dialoghi che tanto han reso grande la pellicola di Tarantino negli ultimi venticinque anni.
Pulp Fiction: un cast stellare per un film divenuto leggenda
Al di là del discorso sulla narrazione e sulle scene chiave – che andremo ad analizzare nei paragrafi successivi – ciò che colpisce immediatamente di Pulp Fiction, a prescindere dall’avere o meno un occhio critico, è l’impressionante cast di cui poté disporre Quentin Tarantino, a partire del contrappasso dantesco alla base del cammeo di Steve Buscemi da Mr Pink de Le Iene (1991) che non credeva nel valore delle mance ai camerieri, al divenirne egli stesso nella pellicola successiva.
Curiosi cammei a parte, il capolavoro di Quentin Tarantino permette di poter avere in scena – in ruoli più o meno rilevanti – attori del calibro di Christopher Walken, Harvey Keitel, Tim Roth e dell’allora astro nascente Uma Thurman – la quale, grazie alla sua Mia Wallace, venne candidata agli Oscar 1995 nella categoria Miglior Attrice Non Protagonista; e ancora di Samuel L. Jackson, di un “redivivo” John Travolta – rispettivamente candidati nelle categorie Miglior Attore Protagonista/Miglior Attore Non Protagonista.
Ultimo ma non ultimo, Bruce Willis, iconica stella del cinema action con la saga di Die Hard, la cui presenza scenica nelle vesti di Butch Coolidge, assumerà un valore narrativo non indifferente.
Pulp Fiction: una narrazione rivoluzionaria condita da dialoghi indimenticabili
A livello critico invece, Pulp Fiction oltre a rappresentare il manifesto dell’idea di far cinema di Quentin Tarantino come tematiche portate in scena ed effettiva estetica – o se preferite “mano del regista”, è riuscito ad avere un impatto incredibile nella storia del cinema per una narrazione unica e irripetibile (ma imitabile).
Tarantino infatti – con Pulp Fiction – compie un’autentica destrutturazione del cinema di genere, presentando non soltanto una narrazione a-lineare il cui intreccio non segue un regolare andamento progressivo “scena per scena” – ma incede anche nell’utilizzo di dialoghi brillanti, leggeri, sempre in bilico tra surreale e grottesco, autentico marchio di fabbrica del regista italo-americano. Tutti espedienti che il nostro aveva già proposto nello sperimentale Le iene, ma che indubbiamente trova in Pulp Fiction un raggio d’azione elevato all’ennesima potenza.
A partire ad esempio, dalla celebre sequenza in cui Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel L.Jackson) vanno a recuperare la valigetta di Marcellus Wallace (Ving Rhames), in cui ogni singolo momento portato dalla sceneggiatura sul grande schermo, è divenuto iconico – il dialogo poco prima del blitz tra pilot televisivi e massaggi ai piedi, il big kahuna burger, e il celebre (e fittizio) passo della Bibbia tratto da Karate Kiba (1973)- Ezechiele 25:17:
Ezechiele, 25:17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che, nel nome della carità e della buona volontà, conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre, perché egli è, in verità, il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare, e infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore, quando farò calare la mia vendetta sopra di te.
Pulp Fiction: John McClane o Butch Coolidge?
Come dicevamo poc’anzi, la presenza scenica di Bruce Willis in Pulp Fiction è di fortissimo impatto non solo a livello narrativo, ma anche da un punto di vista squisitamente analitico. L’episodio dell’orologio d’oro infatti, prevede una serie di passaggi particolarmente rilevanti, a partire proprio dal momento preciso in cui il Butch Coolidge di Willis, dopo aver recuperato l’orologio e fatto colazione, osserva con visibile preoccupazione una mitraglietta con silenziatore incorporato (appartenente a Vincent Vega, in quel momento in bagno).
L’usare la mitraglietta per uccidere Vega, per poi lasciarla lì, e il successivo utilizzo della katana per sfuggire dalla prigionia nel negozio del sadico Zed (Peter Greene) non sono scelte casuali e fantasiose, piuttosto una progressiva destrutturazione dei normali sviluppi scenici nel cinema di genere, un processo che Pulp Fiction compie non solo tramite i dialoghi brillanti e la narrazione volutamente a-lineare, ma anche attraverso piccoli espedienti come questo, giocando con le aspettative dello spettatore e su ciò che accadrebbe normalmente in un film d’azione.
La scelta di Bruce Willis infatti non è casuale, così come non lo è la canotta sporca di sangue nel momento topico – Butch Coolidge non è altro che una rielaborazione tarantiniana dell’iconico John McClane della saga di Die Hard.
Pulp Fiction: la valigetta di Marcellus Wallace, il più grande MacGuffin dell’era contemporanea
Altro elemento che certifica la bontà di scrittura di Pulp Fiction è la valigetta misteriosa di Marcellus Wallace della quale, di fatto, non s’è mai riusciti a conoscere il contenuto – se non, com’è ovvio a livello materiale, una lampadina arancione. Le ipotesi erano da quelle più comuni riguardanti diamanti, cocaina e una quantità non ben precisata di soldi, alle più surreali come l’anima dello stesso Marcellus Wallace visto che la combinazione con cui poterla aprire era il 6-6-6.
Tarantino e il co-sceneggiatore Roger Avary parlarono di un comune MacGuffin hitchcockiano, cioè un elemento narrativo soggetto a un potenziamento scenico al fine di rappresentare così un punto di riferimento funzionale nel dipanarsi della narrazione – qualcosa insomma a cui gli spettatori avrebbero dato particolare attenzione. Qualcosa insomma, di paragonabile alla bottiglia di vino contenente le scorie d’uranio in Notorious – L’amante perduta (1946) diretto da Alfred Hitchcock o, per fare esempi più recenti, all‘Arca dell’Alleanza de I predatori dell’arca perduta (1981) di Steven Spielberg, o la scatola di Barton Fink – È successo a Hollywood (1991) di Joel & Ethan Coen.
Pulp Fiction: il ballo di Vincent & Mia e la strizzata d’occhio a Fellini
L’ultima chicca è certamente la straordinaria scena di ballo tra Mia Wallace e Vincent Vega sulle note di You never can tell di Chuck Berry – il coronamento di una sequenza che ha fatto e continuerà a fare la storia del cinema per la sua bellezza e freschezza, tra dialoghi pseudo-filosofici – “Don’t be a square” e omaggi a pellicole cinematografiche degli anni Quaranta e Cinquanta.
La scena in questione però, non è semplicemente un vezzo artistico di Tarantino, piuttosto uno degli omaggi più rilevanti di tutto Pulp Fiction – è un rifarsi infatti, alla sequenza di ballo “borghese” di 8 e Mezzo (1963) diretto da Federico Fellini a cui assiste un annoiato Guido Anselmi (Marcello Mastroianni).
Perché C’era una volta…a Hollywood è il film più importante di Quentin Tarantino dopo Pulp Fiction
Ma questi non sono che alcuni dei semplici esempi della grandezza di un film come Pulp Fiction che, a venticinque anni dal rilascio in sala, continua e continuerà a stupire intere generazioni di cinefili per la sua intramontabile bellezza. L’autentico punto di partenza nella carriera di Quentin Tarantino che, arrivato a C’era una volta a… Hollywood (2019) sembra esser giunto al capolinea di una carriera costellata di opere mai banali, tutte dotate del suo marchio di fabbrica e di una forte anima citazionista.