Euphoria: recensione della serie teen drama della HBO
La nostra recensione di Euphoria, la serie TV scandalo, con protagonista Zendaya, che dipinge una generazione piena di fragilità e solitudine.
Non ci vuole molto per dare scandalo con una serie TV, basta spargere qualche scena di nudo qua e là, mostrare giovani dediti all’annientamento di sé, magari soffermarsi con enfasi eccessiva su una sfrenata libertà sessuale e il gioco è fatto. Molto più complicato è fare tutto questo con stile. Una veste tecnica indimenticabile e una scrittura capace di cogliere le sfumature di una generazione che oscilla tra redenzione e rovina sono il marchio di fabbrica di Euphoria, serie della HBO ideata da Sam Levinson, ma adattamento di un prodotto israeliano.
Trasmessa in Italia per intero da Sky Box e a puntate su Sky Atlantic a partire dal 26 settembre 2019, Euphoria è una finestra toccante e sconcertante sul degrado di una gioventù sopraffatta da emozioni troppo intense o alla costante ricerca di esse, reali o sintetiche che siano.
Euphoria: la serie scandalo che dipinge una generazione piena di fragilità e solitudine
Sarebbe riduttivo definire menefreghista e dissoluta la gioventù presa in analisi da Euphoria. Se fin dalla prima puntata lo spettatore si trova di fronte allo spettacolo sconcertante di un gruppo di adolescenti dediti alla droga, all’alcool e al sesso, l’intento della serie non è quello di generare uno shock fine a se stesso. È al contrario con un linguaggio fatto di contrasti – di scene che oscillano tra follia visiva e poesia – che Sam Levinson racconta la profonda solitudine di una generazione arrabbiata.
Il suo stile narrativo, spesso caotico e non lineare, rende Euphoria una serie TV dal crudo realismo, diversa da molti altri teen drama in circolazione. Mentre in molti prodotti appartenenti al genere la sfrenata libertà sessuale e l’abuso di sostanze si percepiscono come una sorta di celebrazione dell’emancipazione individuale, la scrittura di Euphoria sottolinea il vuoto che la dipendenza crea – qualunque essa sia –, l’annientamento delle emozioni e la distanza che i rapporti fisici sembrano alimentare più che ridurre.
Nell’abbattimento della tradizionale e stereotipata messa in scena del vizio come elemento ricorrente dell’esistenza giovanile, Euphoria svela una grande profondità. L’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti, il legame indissolubile tra sesso e oscenità, tutto questo non viene esaltato come una fonte di carisma per i personaggi, bensì come una condanna ulteriore all’infelicità, un vicolo cieco, un muro contro il quale prima o poi si finisce per sbattere e che isola ancora di più le figure in gioco.
Tra queste le più rilevanti ci vengono mostrate una per una e svelate con un’indagine volta a farci comprendere in modo più approfondito ciò che le spinge all’autodistruzione. All’eccellente scrittura è affidato il compito di raccontare l’essenza dei giovani personaggi con crudo realismo – a volte in modo un po’ esagerato e senza risparmiare allo spettatore contenuti delicati -, sviluppandone la psicologia e portandoli a un’ottima evoluzione verso la fine della stagione.
La stessa Rue di Zendaya, cresciuta con disturbi comportamentali seri, come l’ansia, la depressione e il disturbo bipolare, non arriva al season finale senza aver subito una crescita personale che le permette finalmente di abbattere qualche barriera, di creare rapporti e di comprendere i propri limiti, a volte rispettandoli altre volte ricadendo nuovamente nella tentazione di superarli.
Euphoria: una serie che scandalizza, spaventa e conquista
Euphoria scava in profondità in una realtà difficile da digerire. Ciò che scandalizza va oltre le foto di organi genitali, le scene di sesso e il facile consumo di droga da parte di adolescenti, ma coinvolge la vacuità di una generazione costantemente sospesa tra connessione e isolamento. Circondati da cellulari all’avanguardia, tablet e PC, esperti navigatori del web e del mondo social, questi giovani non sono mai davvero soli, eppure lo sono sempre, apparentemente apatici e alla ricerca della felicità, ma al tempo stesso incapaci di processare intense emozioni.
Con loro non è semplice stabilire un’empatia, soprattutto se a tentare di farlo è uno spettatore appartenente a una diversa fascia d’età, ma al tempo stesso la scrittura matura e consapevole permette di comprenderli, pur senza giustificarne gli atti, come nel caso del problematico Nate (interpretato da Jacob Elordi).
Nate è colui che spinge all’estremo questa condotta, rendendola un vero e proprio disturbo che lo porta ad atti di violenza assolutamente condannabili. Euphoria riesce così a spaventare il pubblico, ma lo fa nel modo giusto: dietro a una fotografia patinata, a un montaggio esuberante e a una regia a tratti allucinogena da cui è impossibile non sentirsi attratti, la serie dipinge un mondo tristemente reale.
Euphoria: un dolore corale e inclusivo, magnificamente raccontato
Euphoria dipinge una gioventù che tenta ogni giorno di uniformarsi, ma al tempo stesso deve parte della propria maturità all’inclusione di figure molto diverse tra loro, credibili proprio perché capaci di distinguersi. La diversity va ricercata nella rappresentazione di personaggi dalla sessualità fluida e LGBT, come nel caso di Jules, interpretata dalla modella transgender Hunter Schafer. Il percorso di transizione di Jules aggiunge ulteriore complessità a un personaggio già di per sé piacevolmente sfaccettato.
Nella figura di Kat invece (Barbie Ferreira), adolescente in carne e per questo vittima di pregiudizi da parte dei compagni, si vuole portare avanti un ideale di body positivity dagli esiti interessanti. Kat ricerca un’affermazione personale nella sessualità – in particolar modo un tipo di sessualità basata sul controllo e la dominazione dell’uomo -, ma finisce per comprendere che l’accettazione del proprio corpo non deve basarsi sul consenso maschile.
Una menzione d’onore spetta alla veste tecnica di Euphoria, forse l’elemento visivo che più spicca dalla visione della serie. Alla narrazione di vicende verosimili si affianca infatti una regia molto particolare, a tratti simile a un lungo spot pubblicitario o a un video musicale estremamente curato (come si può notare in particolar modo nella scena finale, che coinvolge Zendaya in una meravigliosa coreografia).
Il montaggio, a tratti delicato, a tratti rabbioso, sembra rispecchiare alla perfezione l’interiorità dei personaggi, strutturandosi a volte come un enorme trip di colori. A questo si aggiunge la meravigliosa colonna sonora di Labirinth e l’interpretazione di un cast giovane, ma promettente, capitanato da una Zendaya capace sempre più di distinguersi anche in campo recitativo.