Andrea Castoldi racconta Non si può morire ballando tra malattia, teatro e musica country
Intervista ad Andrea Castoldi, regista di Non si può morire ballando, un film sulla malattia, i legami affetti e l'importanza delle emozioni.
Dopo Vista mare, Andrea Castoldi torna sul grande schermo con Non si può morire ballando che affronta il difficile e delicato tema della malattia attraverso la storia di due fratelli che vivono la drammatica esperienza da due angolazioni diverse di un letto d’ospedale. Ne abbiamo parlato con il regista in occasione dell’uscita nelle sale il 3 ottobre con Distribuzione Indipendente, approfondendo con lui temi, stilemi e metodologie di lavoro.
Come, quando e dove nasce la storia al centro di Non si può morire ballando?
“La pellicola nasce da un’esperienza personale che non sono andato a cercare e che ho riportato su carta tutta d’un fiato. Un’esperienza che ho vissuto a seguito di una brutta malattia che ha colpito una persona a me cara. Avvicinandomi a quella persona ho cercato di restituire quella che poi è la staticità di un luogo come una struttura ospedaliera. All’inizio lo si fa con pudore, con la parola giusta detta al momento giusto che si cerca e nella maggior parte dei casi non si trova. E allora piuttosto che sbagliare si preferisce restare in silenzio. Ma con il trascorrere dei giorni ci si allinea a quella che è la malattia ed ecco che poi, come per magia, con quella persona si trova un’affinità che non era stata raggiunta quando si era in salute lungo il percorso di vita perché distratti dai problemi di tutti i giorni”.
I due personaggi principali sono nettamente agli antipodi, come hai lavorato per rendere questa contrapposizione?
“In effetti la cosa interessante del film è proprio questa contrapposizione: da una parte abbiamo Massimiliano (interpretato da Mauro Negri), una persona concreta che di mestiere fa il commercialista, dall’altra Gianluca (interpretato da Salvatore Palombi), l’uomo del country, più aperto all’improvvisazione e alle emozioni. A metà del film queste due dimensioni entrano in rotta di collisione e prendo qualcosa da ciascuno di loro per donarlo all’altro e viceversa, tant’è che il primo ridiventa una sorta di adolescente che prova semplicemente con un gioco a tenere in vita il secondo. E ci crede, lo fa con decisione, pensando quasi di esserci riuscito. Mi piaceva il pensiero di potere mescolare questi elementi”.
Andrea Castoldi: “Non si può morire ballando è un film girato in dodici giorni con una troupe ridotta, un budget contenuto e tanta forza di volontà”
I pochi giorni a disposizione per le riprese e le ristrettezze del budget a disposizione hanno influenzato la lavorazione del film e se si come?
“In realtà si tratta di un progetto nato già sulla carta per essere realizzato in un lasso di tempo breve. Il film è stato girato in dodici giorni con una troupe ridotta, un budget contenuto e tanta forza di volontà, più una mezza giornata a Fano per le riprese del campo di girasoli utilizzate nel prologo. Già in fase di scrittura tendo a prendere delle decisioni che assecondano le disponibilità economiche effettive. Questo mi porta a un processo di autocensura, perché se so che una cosa non posso girarla cerco delle alternative altrettanto valide e alla portata del progetto. In generale quando nasce una storia non ce la faccio ad aspettare troppo.
Se la scrivo è perché in qualche modo devo farla. Quindi combatto e trovo il modo, la maniera, le situazioni e i mezzi per portare a termine il progetto. Come per tutti i film indipendenti anche per Non si può morire ballando si è cercato di trovare delle soluzioni alle diverse problematiche. È chiaro che non si può fare tutto, ma per quel poco che si riesce a fare occorre tenere gli occhi sempre aperti per trovare quelle intuizioni utili a non fare perdere contenuti e significati al film. Forse la fase più delicata e importante è proprio questa, ossia quella di non perdere la strada proprio a causa della mancanza di possibilità economica. Penso che la vera sfida sia proprio questa”.
La scelta di puntare su riprese lunghe e piani sequenza è nata già in fase di scrittura o è venuta dopo?
“Sin dall’inizio ho pensato a uno stile che facesse largo uso di piani sequenza. Il film in tal senso nasce e viene raccontato con una lentezza costante ed è un dato di fatto, perché è la storia in sé a essere in qualche modo “malata” e quindi faticosa nel procedere. Vedi ad esempio le riprese nei lunghi corridoi del reparto che servivano a restituire la metafora di un ponte tra la vita e la morte, oppure i dialoghi in ospedale tra i personaggi che ho messo in quadro attraverso una successione di campi controcampi statici. Questa metodologia ovviamente facilita in termini produttivi e registici la lavorazione, ma necessita a sua volta di uno sforzo attoriale superiore. Faccio l’esempio della scena notturna del frigorifero resa attraverso un unico long take a camera fissa di quattro minuti in cui Mauro Negri ha messo tutto quello che poteva mettere da un punto di vista interpretativo. Il risultato è una scena emotivamente molto pregnante che prevedeva dei continui cambi di ritmo, intensità e registro”.
Andrea Castoldi su Non si può morire ballando: “La vita altro non è che una distesa di fiori profumati con una lavatrice rotta piazzata proprio nel mezzo“.
Nel film al piano realistico si affianca quello metaforico e simbolico; cosa puoi dirci a riguardo?
“Ne faccio uso sin dalla sequenza iniziale che mostra un campo di girasoli percorso in lungo e in largo dalla macchina da presa. E c’è una frase che cerca di riassumere il senso di quell’incipit e recita così: “la vita altro non è che una distesa di fiori profumati con una lavatrice rotta piazzata proprio nel mezzo”. Questo per dire che la vita è un bellissimo quadro fatto di colori e di profumi, ma ti può capitare di incontrare qualcosa, in questo caso la malattia, che va a deturpare quell’immagine e che nel prologo ho voluto rappresentare con una lavatrice rotta abbandonata nel campo”.
Perché la scelta di puntare prevalentemente su sonorità country?
“L’idea del country è nata dal fatto di volere creare del movimento all’interno del film, in contrapposizione con la crescente staticità alla quale è costretto il co-protagonista con lo scorrere della narrazione. Da qui la presenza di una serie di accessori come il cappello e gli stivali o di colori per dare una caratterizzazione altra al personaggio, quasi a stemperare la freddezza e l’asetticità delle location ospedaliere. In verità non sono un grande conoscitore di questo genere musicale. Mi ci sono avvicinato grazie all’autore della colonna sonora Andrea Mele e insieme ci siamo resi conto che poteva imprimere una certa forza al mood del film. Tanto è vero che poi abbiamo dato molto spazio al country in quella che è a tutti gli effetti la scena più frizzante e dinamiche presente nella timeline, ossia quella della sala da ballo dove sono radunate sotto lo stesso tetto più persone in salute”.
Andrea Castoldi: “Non si può morire ballando è un film meta-teatrale“
L’elemento meta-teatrale è molto presente nella timeline; come sei riuscito a fare coesistere questi due impianti?
“Per cercare di restituire la situazione visivamente a un primo impatto teatrale come gusto, ricreando in uno spazio – la stanza dell’ospedale – un contenuto, però continuando a renderlo cinematografico agli occhi dello spettatore subito dopo, ci siamo il più delle volte appoggiati a degli oggetti di scena che accompagnavano il percorso attoriale nel film. Mi vengono in mente ad esempio le bolle di sapone utilizzate da Massimiliano durante una delle ricostruzioni che dalla stanza di Gianluca vanno poi a finire sul palcoscenico del teatrino amatoriale dove Massimiliano va a reclutare gli attori per la messinscena dei ricordi. Questo come altri sono dei piccolissimi escamotage che mirano proprio a tenere insieme e mescolare i due aspetti, creando un equilibrio tra loro senza che l’uno prenda mai il sopravvento sull’altro”.
Cosa guida normalmente il tuo processo creativo, che possiamo ritrovare anche in Non si può morire ballando?
“Una cosa che fa parte del mio modus operandi è quello di non rinfrescarmi mai la memoria in fase di scrittura prima e in quella realizzativa poi, andando a curiosare su quei film del passato che appartengono a quel dato genere o che affrontano quel dato argomento. È chiaro che nessuno scopre più nulla, ma magari la visione di opere precedenti a quella alla quale stai lavorando possono in un modo o nell’altro influenzarti involontariamente. Se racconti il tuo aspetto personale e non hai riferimenti del giorno prima ecco che probabilmente riesci invece a fare qualcosa di più autentico”.