RomaFF14 – Buio: recensione del film di Emanuela Rossi
Buio di Emanuela Rossi è un racconto di formazione fiabesco sulla voglia di libertà, sul dolore inespresso e su rapporti familiari malsani
Alice nella città – sezione parallela della Festa del Cinema di Roma 2019 da sempre con un occhio attento alle opere prime e alle proposte particolarmente originali -, ha pescato dal cilindro il fiore all’occhiello dell’intera rassegna cinematografica; quel Buio (2019) di Emanuela Rossi con protagoniste, tra le altre, Denise Tantucci, Gaia Bocci e Olimpia Tosatto e accolto alla prima nazionale con una standing ovation e un applauso lungo 4 minuti.
La pellicola – definita dalla stessa Rossi “una favola femminista“- racconta di Stella, diciassettenne che insieme alle sorelle più piccole Luce e Aria, è chiusa in una casa con le finestre sbarrate. Fuori c’è l’Apocalisse: due terzi dell’umanità sono morti perché i raggi del sole sono diventati troppo potenti. Possono uscire solo gli uomini, le donne non resistono.
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La vita claustrofobica della casa è ravvivata da giochi speciali come la festa dell’aria e il picnic al lago, una gita nel salotto di casa in cui ricordano la bellissima mamma morta. Ogni sera il padre rientra, si spoglia della maschera antigas e della tuta termica, e aggiorna le figlie con i racconti di un’Apocalisse ancora in corso, che continua a decimare l’umanità. Una sera, però, l’uomo non torna: Stella decide quindi di uscire per cercare del cibo…
Buio: un racconto di formazione fiabesco e originale
Dopo aver delineato il contesto narrativo grazie a un sapiente lavoro del reparto scenografico nel mostrarci una casa buia e spettrale e le sue abitanti, tre sorelle che conducono una vita solitaria e asettica, Buio parte dall’assunto di un quadro familiare fortemente alienato, per delineare un racconto di formazione sul bisogno di vivere una vita normale come chiunque altro. Una normalità che in Buio sembra essere quanto di più lontano possa esserci, grazie a un sapiente uso di piccoli elementi scenici come le luci artificiali al neon, pasti frugali, tendoni di plastica, grate alle finestre e caschi protettivi persino per stare in casa, volti a mostrarci una sorta di visione fantastico-fantascientifica del’iper-protezione dei genitori verso i propri figli sulla scia di Dogtooth (2009) diretto da Yorgos Lanthimos.
In realtà Buio nasconde molto più di una “banale” visione del genere, piuttosto un racconto di dolore sotterrato, sull’uso del potere dell’immaginazione per andare oltre le sbarre della propria casa, alla ricerca di un proprio posto nel mondo.
L’elemento femminista citato poc’anzi dalle parole della regista Rossi, non è casuale. Il racconto di Buio si fa forte infatti, delle intenzioni del padre di voler rendere le figlie forti come un uomo piuttosto che “delle pappemolli”; espressione che, unita a una serie di piccoli espedienti in sceneggiatura – come il definire le mestruazioni una malattia che uccide gli uomini – fa emergere un sottotesto avente come oggetto il maschilismo e l’omologazione sociale tra uomo e donna.
La narrazione declina un intreccio solido in una struttura apparentemente semplice, su una lenta evoluzione il cui motore degli eventi è la voglia di libertà della figlia maggiore; espediente volto a svelare gradualmente l’enigma legato al bizzarro stile di vita delle bambine e del padre-orco. Un low-concept che si fa forte dei suoi evidenti limiti produttivi, in un racconto a metà tra il surreale e il fiabesco che gioca tutto sullo sbigottimento del pubblico dinanzi all’evoluzione del rapporto del padre con le proprie figlie, sulla cui “cattività” emerge un appena accennato velo di abusi incestuosi.
Buio: un’opera prima affascinante e intelligente
È proprio la narrazione a metà tra fiabesco e onirico e il dramma familiare opportunamente declinato in una cornice scenica apparentemente distopica a rendere Buio una delle opere più interessanti nella rassegna di Alice nella città 2019. Un racconto di formazione che ci deve far riflettere sull’orrore familiare e sull’importanza delle piccole cose e delle prime volte che spesso, nel caos della frenesia della vita quotidiana e dei problemi, tendiamo a dimenticare.