RomaFF14 – 438 days: recensione del film di Jesper Ganslandt
Recensione di 438 days (2019) di Jesper Ganslandt, un racconto d'indagine giornalistica asciutto che ci mostra le atrocità del continente nero con protagonisti Gustaf Skarsgaard e Matias Varela.
Tratto da un’incredibile storia vera, 438 days (2019) diretto da Jesper Ganslandt con protagonisti Gustaf Skarsgaard e Matias Varela, rappresenta – tra quelle minori – certamente una delle pellicole di maggior interesse della Festa del Cinema di Roma 2019; una pellicola di giornalismo d’inchiesta che odora di un cinema d’altri tempi, di quello degli anni Settanta d’impegno sociale di Robert Redford.
438 days racconta infatti dei due fotoreporter Martin Schibbye (Gustaf Skarsgaard) e Johan Persson (Matias Varela) che il 28 giugno 2011 attraversano il confine tra Somalia ed Etiopia in modo illegale, nel bel mezzo di una guerra civile nella regione di Ogaden dove sono coinvolti interessi economici inerenti a dei giacimenti petroliferi della Lundin Oil nel cui CDA è presente il primo ministro svedese.
Quando vengono catturati dal commando etiope, i due fotoreporter vengono coinvolti in un processo di strumentalizzazione da uomini più potenti di loro, entrando all’interno del dibattito internazionale. A quel punto, sarà la loro amicizia l’unica arma con cui potersi difendere da tutto questo.
438 days: un racconto asciutto per un cinema d’altri tempi
438 days porta in scena la missione dei fotoreporter di guerra Schibbyie e Persson in un racconto dalla fotografia sporca a luce naturale e una messa in scena asciutta e realistica da camera a mano. Per una regia – quella di Ganslandt – fatta di campi lunghi e panoramiche con cui esplorare i magnifici paesaggi della scenografia valorizzata da tramonti mozzafiato, e profondi primi piani e medi, con cui elaborare un intreccio dal ritmo teso sin dalle prime battute, in medias res.
La narrazione si sviluppa così in modo armonioso tutta intorno ai due fotoreporter protagonisti “a metà tra Bob Marley e Mad Max” che “sparano” con la macchina fotografica – tra interazioni tipicamente da “buddy” declinate in un racconto profondamente drammatico – permettendoci di mostrarci l’indagine sul campo dei due coraggiosi fotoreporter svedesi nel delineare un percorso narrativo a metà tra fiction e documentario, con cui renderci testimoni di ciò che accade nel Continente Nero.
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A fronte di atrocità immani infatti – che il racconto di 438 days introduce lentamente nello sviluppo della narrazione – ci vengono mostrate le ragioni dietro al commando etiope che vuol lottare per riportare la propria terra ai propri fasti, alla semplicità, lontano quindi dall’assalto del mondo occidentale, ricalcando in parte la ragione degli estremismi nel Medio Oriente.
Il cuore del racconto rappresenta senz’altro la prigionia dei due reporter da parte del commando etiope della regione dell’Ogaden, in una scansione episodica dei giorni, volto ad alzare progressivamente la posta in gioco tra atroci ferite di guerra, raid del commando, atti di pura intimidazione (e molto altro) e violazioni dei diritti umani. Espediente narrativo che permette a 438 days di far riflettere lo spettatore sull’orrore della guerra nei luoghi più lontani, sul valore delle notizie, cosa spinga insomma due fotoreporter svedesi a indagare e raccontare del conflitto etiope-ogadeniano e sulla manipolazione del video nel terzo millennio.
Per personaggi che crescono progressivamente lungo il dipanarsi del racconto, che perdono la propria caratterizzazione da fotografi in tempo di guerra, per divenire lentamente prigionieri senza nome, privati della propria dignità, identità, vita, separati e riavvicinati per diventare carne da macello alla mercé del commando e strumentalizzati dal governo etiope; uomini veri che quando tutto sembra perduto, urlano a squarciagola: “sono vivo e spero che tu mi senta.”
438 days: “No guts, no glory“
Un racconto, quello di 438 days, che è anche una splendida declinazione dell’amicizia in tempi di difficoltà immani e di valori importanti come l’onore; attraverso una narrazione che testimonia senza pietismi e non prendendo posizione, piuttosto puntando tutto sulla forza del proprio soggetto. In tal senso la pellicola di Ganslandt non è di quelle che brillano per particolare originalità narrativa – specie nello sviluppo del racconto – ma risulta piacevolmente godibile nell’essere l’ennesima declinazione del cinema giornalistico-bellico, secondo una chiave di lettura nordica.