TSFF 2019 – L’Angle Mort: recensione del film di Pierre Trividic e Patrick Mario Bernard
L'Angle Mort è un film di grande qualità: coraggioso, dolente e disperato.
L’Angle Mort ha come protagonista il dinoccolato e un pò immaturo Dominick (Jean-Christophe Folly), la cui vita è sempre stata un pò più complicata rispetto agli altri fin dalla sua nascita, dal momento che si è sempre trovato di fronte ad un problema non da poco: in certe situazioni (che sfuggono sempre di più al suo controllo), Dominick diventa invisibile. Letteralmente.
E, si badi bene, solo lui e la sua famiglia sanno della cosa, per il resto il mondo, i suoi colleghi di lavoro alla scuola di musica, persino la sua fidanzata Viveka (Isabelle Carré), ignorano del tutto questa sua “qualità”, che egli usa ogni volta che può o che non può evitarlo. Per esempio quando spia la bella vicina cieca Elham (Golshifteh Farahani) o quando improvvisamente il suo corpo reclama una trasformazione che lo esporrebbe agli occhi del mondo.
Ma il riapparire del suo vecchio amico d’infanzia, Richard Jaskowiak (Sami Ameziane), lo porrà di fronte alla realtà che non è il solo a possedere questa “dote” e che quello che fa è in realtà nascondersi in piena luce. Anche da se stesso.
L’Angle Mort e l’invisibilità: maledizione o benedizione?
L’Angle Mort è diretto da Pierre Trividic e Patrick Mario Bernard, che si basano su una sceneggiatura scritta con grande abilità da loro stessi ed Emmanuel Carrère, che fin da subito spinge sull’acceleratore, mostrandoci la tragedia di un uomo costretto a fare i conti con una super-maledizione più che un super-potere.
Grazie alla fotografia di Jonathan Ricquebourg e alla colonna sonora dello stesso Bernard, lo spettatore si trova all’interno di un Angolo Morto appunto, imprigionato assieme a Dominick in un labirinto fatto di stanze, persone che non vuole, sotterranei, vicoli e strade che vive soprattutto di notte.
La famiglia, la società, vengono de-costruite da un iter narrativo che ne mostra il loro essere trappola, fonte di sofferenza, eredità scomoda, nemico per la libertà dell’individuo diverso dalla massa, slegato dai ritmi e dalle regole di una metropoli grigia, fatta di case spettrali e senz’anima.
L’Angle Mort è anche metafora dei tempi moderni fatti di solitudine ed esclusione, di razzismo; il film riporta in auge la tematica delle banlieue, dei ghetti di una Francia dove ogni etnia lotta conto le altre.
L’Angle Mort: un inno alla normalità?
Tuttavia su tutto e tutti domina la dimensione personale, lo sfuggire all’esaltazione super-ostica, al potere come redenzione in stile Jeeg Robot, ma anzi, si abbraccia un racconto sempre sotto le righe, dove la fantasia è anestetizzata, stritolata dalle spire di una realtà impietosa, arida e priva di amore.
A conti fatti può sembrare un inno alla normalizzazione, cosa che in effetti appare come un piccolo difetto della sceneggiatura, un’incoerenza che si aggiunge ad una durata eccessiva, a finali su finali che si accavallano, L’Angle Mort a volte commette l’errore di spiegare troppo, di voler mostrare tutto, quando sarebbe stato più consono allo stile e alla natura del personaggio suggerire.
Il cast tuttavia si muove con grande grazie ed ispirazione, toccando sovente le corde di un’incomunicabilità tra sessi ed anime che ben si aggancia al tema principale, quello della diversità.
Siamo tutti, in fin dei conti, invisibili nelle metropoli odierne, costretti a soffocare sogni, idee, il nostro Io, impossibilitati a metterci a nudo di fronte agli altri, che sono fragili, indisposti verso l’ascolto, privi di empatia.
L’Angle Mort è un film di grande qualità, coraggioso, dolente e disperato, ma che sa infine farci capire quanto la rabbia serva a poco, quanto rifiutare gli altri serva a poco, visto che ognuno di coloro che ci circondano bene o male vive drammi simili ai nostri, e che dare (non prendere) è la chiave per vivere al meglio la nostra vita, per uscire dall’invisibilità, dall’Angolo Cieco in cui siamo costretti dalla società.