TSFF 2019 – Aniara: recensione del film

Un ilm disturbante ed inquietante, ma al quale non sarebbe guastato un budget degno di Hollywood.

Film di enorme impatto emotivo, sovente disturbante ed inquietante, Aniara di Pella Kågerman ed Hugo Lilja si è aggiudicato il Premio Asteroide a questo Trieste Science + Fiction Festival 2019, convincendo in modo netto una giuria che aveva diverse pellicole di enorme valore.
Il film ci porta in un futuro non così lontano, in cui l’umanità ha definitivamente distrutto il pianeta ed è ora protagonista di un esodo a bordo di gigantesche navi spaziali, dirette alle colonie create su Marte.
A bordo di una di queste immense nave-città, comandata con piglio autoritario dal Capitano Chefone (Arvin Kananian), è stata installata anche MIMA, una sorta di coscienza artificiale che aiuta i passeggeri a rilassare la mente, ne analizza il subconscio, li tranquillizza, li connette con i loro pensieri più nascosti.
L’addetta alla sua manutenzione, denominata Mimaroben (Emelie Jonsson), all’inizio ha ben poche persone interessate al macchinario, ma quando la Nave a causa di un guasto finisce fuori rotta, con la prospettiva di dover rinunciare per diversi anni a raggiungere Marte, MIMA diventa un rifugio per ogni passeggero disperato o senza meta. In breve per la Mimaroben e per chi le sta accanto comincerà una lunga odissea da incubo, nella quale i passeggeri e la nave si troveranno alle prese con disperazione, speranza, lotte, culti religiosi improvvisati, e dove la violenza diventerà sempre più protagonista.

Aniara: dal poema greco di Harry Martinson al disturbante film di Pella Kågerman ed Hugo Lilja

Aniara (disperazione in greco) si ispira in modo chiaro all’omonimo poema creato dal Premio Nobel per la letteratura Harry Martinson, nel quale lo scrittore svedese in 103 canti aveva narrato la tragedia di una nave spaziale in cui rivivevano le terribili atmosfere della Guerra Fredda, dello Stato come controllo ed oppressione, dell’uomo come essere irascibile, egoista, inaffidabile.
Nel film come nel poema, grande importanza è data anche al rapporto tra libertà, arte e coscienza, a quanto chi comanda cerchi sempre di limitare tale connessione, quanto gli spiriti liberi e tolleranti siano pericolosi per chi usa la paura e la menzogna per conservare il potere. Un potere che in Aniara è (tanto per cambiare) maschile, patriarcale, sessista, un potere che fa di tutto per sopravvivere, per non perdere la propria posizione, confondendo la propria figura con la comunità, creando simbiosi.
La sceneggiatura di Kagerman e Lijia è di assoluto livello, fa della protagonista e di chi le sta attorno umanissime e fallaci figure perse in uno spazio ostile, senza vita, in cui l’essere umano è costretto ad accettare la propria insignificante essenza.

Aniara appassiona, spaventa e ci fa riflettere

aniara cinematographe.it

Aniara ha una regia impeccabile, elegante, che usa il design creato da Ellen Utterström per guidare lo spettatore dentro un universo freddo, plastificato, sterile, dove tutto, dal sesso alla violenza, dalla rabbia alla morte, appare innaturale, forzato, mai generato da empatia ma da un’egoismo spinto all’estremo.
La disciplina, la mancanza di libertà e di eterogeneità esistenziale, tipiche della civiltà nordica, vengono sempre rese in modo perfetto nell’estetica di un labirinto che si stringe attorno ai passeggeri, nella parvenza di ordine in un caos che sotterraneo striscia e si insinua in ogni forma di espressione.
Il film cattura e appassiona, spaventa e ci fa riflettere continuamente su quanto l’umanità ripeta sempre gli stessi errori da secoli, su quanto usi una razionalità deviata da paura e convenienza. Tuttavia Aniara è uno di quei film in cui si avverte chiara la necessità di una fotografia diversa da quella usata da Sophie Winqvist, che spezza e non rende abbastanza espressivo l’insieme, rende difficoltoso connettersi con l’atmosfera in più di un’occasione.

Aniara mette in scena la bellezza e la distruzione di cui solo l’uomo è capace

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Aniara in diversi momenti palesa una certa mancanza di mezzi, i limiti di un budget che onestamente avrebbe dovuto essere più alto, di un’estetica e una narrazione che avrebbero meritato ben altre possibilità.
Strano dirlo, ma non sempre il gigantismo è dannoso, non sempre i miliardi di Hollywood sono dannosi, qui vien voglia di vederlo con altri mezzi e altri interpreti, per quanto quelli di questo film difficile, genuino e ricercato siano assolutamente ben calibrati e ben impostati.
L’iter narrativo potrà sembrare ad alcuni un po’ lungo, ma in realtà è coerente con la filosofia di fondo, con il poema da cui è tratto, con il voler parlare di un’Odissea orrenda e nauseante che altro non è che la sintesi dei disastri di cui siamo capaci.
Ma anche della bellezza che sappiamo creare, di come sappiamo riscattarci quando smettiamo di essere maniaci del controllo, smettiamo di avere paura, ci riconciliamo con l’essere parte di e non motore di qualcosa.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.6