Editoriale | Perché Doctor Sleep NON è il sequel di Shining di Stanley Kubrick
A quasi quarant'anni dall'uscita in sala di Shining, Stephen King torna a raccontare la storia di Danny Torrance. Ma perché il film di Flanagan non può definirsi un vero e proprio sequel del film di Stanley Kubrick?
Quando Stanley Kubrick sigillò la chiusura dei (quasi) tragici eventi avvenuti tra le mura dell’Overlook Hotel nel suo Shining mostrandoci, nel finale, i protagonisti sopravvissuti sulla via della fuga da quel luogo maledetto, la domanda che ha tartassato per decenni gli spettatori – e i lettori dell’opera di Stephen King – è sempre stata una sola: dove sono, ora, Wendy e Danny?
A questa domanda è stato chiamato a rispondere lo stesso King che nel 2014, con la pubblicazione di Doctor Sleep, punta nuovamente lo sguardo sul piccolo Danny, ora adulto e alle prese con i tanti residui del trauma, e sulle conseguenze e le responsabilità legate a quella “luccicanza” che sembrava sancire un legame particolare e indissolubile con l’Overlook, tanto nel romanzo quanto nel film di Kubrick.
Ad occuparsi di narrare sul grande schermo le vicende raccontate nell’opera viene chiamato, cinque anni dopo, Mike Flanagan, già regista di punta nel panorama dell’horror contemporaneo e reduce da adattamenti di opere derivanti dall’universo dello scrittore di Portland (Il gioco di Gerald ma anche la serie Hill House, strabordante di omaggi e influenze che riportano ai simboli e le tematiche preminenti della poetica di King).
Doctor Sleep e Shining: come può Mike Flanagan approcciarsi a Stanley Kubrick?
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Come approcciarsi, però, a un’opera filmica così ben incastonata nell’immaginario collettivo e così iconica, così “sacra” come quella realizzata da Kubrick nel 1980? Scegliere di aderire all’immaginazione di Stephen King, per non incappare nello stesso errore che diede vita alla più celebre disputa “cinefila” (o cinematografica) fra maestri del brivido – che a King non vada a genio la rimasticazione effettuata dal cineasta statunitense è fatto ben noto – si palesa come la decisione più saggia oppure, al contrario, nasce la necessità di riconoscere definitivamente l’impatto abnorme della visione di Kubrick e immergersi, ancora una volta, nell’imperscrutabile e maligna atmosfera che pervadeva le stanze e i corridoi dell’albergo in cui abbiamo visto Jack Nicholson brandire un’ascia (anziché una mazza da croquet)?
Warner Bros. e Mike Flanagan, che per la prima volta tiene da solo le redini del progetto in fase di sceneggiatura (sostituendo del tutto il nome del fidato e onnipresente Jeff Howard), optano per una via di mezzo corretta, al di sopra delle parti. Tutto il percorso di Danny Torrance viene seguito alla lettera, forse soltanto carezzando la superficie della come sempre enorme mole di sottotesti (soprattutto di natura politica) che caratterizza il Doctor Sleep di Stephen King, e il nucleo del racconto è la minaccia del True Knot, una sorta di setta composta da semi-umani semi-immortali che bramano il “vapore” della luccicanza per mantenersi forti e in vita, nel corso dei decenni. Il pericolo, però, riguarda Danny solo dal momento in cui stringe un rapporto di amicizia con Abra, una ragazzina dotata di una luccicanza molto più potente di lui, che attira il gruppo di cannibali capitanato da Rebecca Ferguson. Danny deve proteggere Abra.
Tornare nell’Overlook Hotel
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C’è un momento ben preciso nella narrazione di Doctor Sleep in cui, però, la necessità di tornare nell’Overlook Hotel sembra palese e improrogabile: presentandosi come l’unico angolo del pianeta capace di emanare un potere analogo a quello che il True Knot va cercando, è chiaro che possa rappresentare una trappola ideale, sebbene sia altresì pericolosa per i due protagonisti. Ed ecco che dal cosmo dello scrittore si passa a quello del regista: a Danny si fanno ripercorrere quegli stessi corridoi in cui scivolava al di sopra di un triciclo per finire direttamente dinanzi alla porta maciullata da quell’ascia, oltre la quale la povera Shelley Duvall si agitava tra le sue stesse urla (chissà che non fossero quelle dell’attrice stessa, sotto pressione lavorativa). Tutto sembra accontentare ogni fan, dall’ammiratore di Kubrick al seguace di ferro di King.
Cos’è che, allora, non funziona in Doctor Sleep? L’idea stessa, probabilmente. Il dovere, quasi gravasse come un obbligo, di suggellare la pace fra i due artisti, portatori di sensibilità così discordi fra loro, non sembra giovare al risultato finale di un film che nella maglia degli eventi, alla fine, presenta più di una forzatura a livello narrativo e tante scelte discutibili anche sul piano della messa in scena (come il trovarsi di fronte all’urgenza di replicare i corpi e i volti di tutte le presenze attoriali, anche “spettrali”, che hanno reso lo Shining e l’Overlook di Kubrick indimenticabili, e con pretesti poco convincenti).
Cosa non funziona in Doctor Sleep?
Lo spettro non si presenta come la traduzione metaforica di un senso di colpa, nel nuovo-vecchio Overlook di Flanagan. Il fantasma aderisce alla visione “di genere” proposta da Kubrick, facendo rivivere tutte quelle presenze che anni dopo continuano a infestare il luogo. A mettere in crisi, però, la consequenzialità agli eventi narrati dal film di culto è l’incompatibilità fra le prospettive dei due autori e fra i loro punti d’interesse. Prima di tutto sulla follia del loro protagonista-villain, che da Kubrick è tradotto come grave peggioramento che subentra a seguito di un isolamento (il luogo è maligno in tal senso, seppur esista il piano sovrannaturale), mentre da King è visto come l’epilogo di una tragedia strettamente connessa al punto di vista di Danny, e che risiede nel ritorno del passato, nella sua inevitabilità e nella sua fatalità, accentuata da fattori esterni.
Al centro dello sguardo di King ci sono tutte quelle caratteristiche saldamente connesse alla natura dell’essere umano e delle sue fragilità, come il conflitto fra il presente e il passato, la paura, il dolore, le fratture della psiche, l’amicizia, l’unione. Come nel suo Shining, la “famiglia” assume un posto di rilievo che si pone al di sopra di tutto il resto e la componente horror si configura come un pretesto ottimale per mettere in crisi quel nucleo famigliare, già compromesso e precario nonostante la natura buona (e i buoni intenti) di Jack Torrance.
Kubrick, invece, avanza l’ipotesi di una malattia mentale che s’impossessa tanto del padre quanto del figlio (e questo è chiaro soprattutto nella versione statunitense della pellicola, ricca di scene, come quella di una visita dalla psicologa, esplicative sotto quest’ottica). La prospettiva di Kubrick è binaria, ambivalente: la storia di Shining è in bilico fra la psicologia e il sovrannaturale, fra la metafora e il realismo, fra la semplicità di un racconto orrorifico e il sospetto di un abisso e di numerose chiavi di lettura che si celano sotto la sua epidermide.
Ma se tutto quel che accade nell’Overlook di Kubrick potrebbe essere la raffigurazione di turbe mentali, di proiezioni psichiche, se tutto è in dubbio perché tutto è criptico, non è possibile vederle palesarsi nell’opera di Flanagan, anche per via del cambiamento dei protagonisti e del punto di vista tramite cui si fa esperienza dell’Overlook. Protagonisti che, è chiaro, si esprimono e lottano continuamente mediante le proprie capacità soprannaturali. Che è, in fin dei conti, proprio ciò che veniva messo in discussione da Kubrick.