Django Unchained: recensione del film di Quentin Tarantino
Ricordo l’uomo che mi ha fatto uccidere un altro uomo, di fronte a suo figlio, senza battere ciglio. Te lo ricordi?
Certo che me lo ricordo.
E mi hai detto: “Questo è il mio mondo. E nel mio mondo ti devi sporcare”. Sto facendo questo: mi sto sporcando.
L’amore fra Quentin Tarantino e il cinema western, raccontato in innumerevoli dichiarazioni ed esplicitato in copiose citazioni disseminate nelle sue pellicole, si celebra finalmente con Django Unchained, che come il precedente film del regista Bastardi senza gloria omaggia nel titolo un precedente lungometraggio italiano, in questo caso Django di Sergio Corbucci. Per quest’opera, Tarantino si avvale della collaborazione di un suo attore feticcio come Samuel L. Jackson, dello straordinario Christoph Waltz, che con questo film bisserà l’Oscar come migliore attore non protagonista già ottenuto per la sua performance in Bastardi senza gloria, e di altri due formidabili interpreti come Leonardo DiCaprio (in uno dei suoi pochissimi ruoli da villain) e Jamie Foxx, che interpreta proprio il protagonista Django. Il regista inoltre ottiene anche la collaborazione di colui che ha musicato le più grandi pellicole del suo idolo Sergio Leone, ovvero Ennio Morricone, compositore del brano originale Ancora qui eseguito da Elisa. Dopo Django Unchained, il maestro italiano aveva manifestato la volontà di non collaborare più col regista americano, salvo poi cambiare idea e comporre la colonna sonora di The Hateful Eight, il nuovo film di Quentin Tarantino (di cui qui potete leggere la nostra recensione) e che proprio oggi è in uscita nelle sale italiane, distribuito dalla Leone Film Group.
Django Unchained: una riflessione su una parte di storia americana travestita da western cinico e violento
Ci troviamo in Texas nel 1858, poco prima dell’inizio della Guerra di secessione americana. Lo schiavo di colore Django (Jamie Foxx) viene liberato dall’ex dentista tedesco King Schultz (Christoph Waltz), ora cacciatore di taglie, che ha bisogno di lui per riconoscere tre criminali che sta cercando. Fra i due nasce un ottimo rapporto che si trasforma in sincera amicizia, per via della quale Schultz decide di aiutare Django a perseguire il suo più grande desiderio, ovvero liberare la moglie Broomhilda (Kerry Washington), tenuta prigioniera dal ricco proprietario terriero Calvin Candie (Leonardo DiCaprio). Schultz e Django raggiungono così Candyland, l’imponente tenuta in cui risiede Candie, con l’obbiettivo di ottenere attraverso l’inganno la libertà di Broomhilda dal malvagio schiavista.
Come tipico del suo stile, Quentin Tarantino naviga libero fra i generi e le citazioni, rielaborando un prodotto del tutto fresco e originale, che sfugge a qualsiasi tentativo di catalogazione. Django Unchained si rivela così solo formalmente un western, genere da cui vengono tratte l’ambientazione, alcuni elementi tipici (per esempio il cacciatore di taglie) e le solite varie citazioni a numerose pellicole del passato, su tutte ovviamente Django (richiamato da titolo, tema musicale e uno spassoso cameo di Franco Nero), Il grande silenzio dello stesso Corbucci (la scena dell’addestramento di Django) e, nel finale, Giù la testa e Il buono, il brutto, il cattivo. Quentin Tarantino parte da questi spunti per compiere un viaggio cinematografico che abbraccia dramma, commedia e un pezzo di storia americana, quella che riguarda la schiavitù e e la discriminazione razziale. La violenza fisica e verbale del regista americano non è mai fine a se stessa, ma mai come in questo caso ha una specifica connotazione politica e sociale e la volontà di descrivere i soprusi perpetrati per intere decadi verso le persone di colore. Django diventa così il simbolo del riscatto degli oppressi, che riescono a liberarsi dalla loro condizione e a confrontarsi alla pari con coloro i quali li sopraffacevano.
Una sceneggiatura perfetta, ricca di battute memorabili e in cui nulla è lasciato al caso, viene esaltata da un cast stellare, da cui Quentin Tarantino riesce a trarre il massimo. Negli ultimi anni al cinema poche volte abbiamo assistito a un duello di bravura fra attori così insistito e prolungato come in Django Unchained. A dominare, come nella precedente pellicola del regista, è il formidabile Christoph Waltz, a cui la definizione di attore non protagonista (che gli è valsa l’Oscar della categoria) va abbastanza stretta, in quanto a più riprese è lui a guidare l’azione e il percorso verso la libertà dell’inesperto Django. Il Dottor King Schultz si rivela l’altra faccia della medaglia del Colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria, con la stessa abilità dialettica e la stessa macabra ironia, che stavolta però viene messa al servizio di una giusta causa, donando grande umanità al personaggio. A fargli da contraltare un demoniaco Leonardo DiCaprio, letteralmente derubato di una nomination all’Oscar, che conferma la sua poliedricità nei panni di un personaggio spregevole, che incarna i vizi e le meschinità dell’animo umano che il film vuole mettere in luce. L’attore ha dovuto superare se stesso sia dal punto di vista morale (si è trovato più volte in difficoltà sul set nei momenti in cui doveva rivolgere verso gli altri personaggi gli insulti più gravi e razzisti) sia dal punto di vista fisico: non tutti sanno infatti che nella celeberrima scena del teschio, DiCaprio si è realmente ferito (il sangue che gli cola dalla mano è il suo), ma è rimasto comunque in parte fino alla fine della scena, scatenando l’ ovazione di tutta la troupe e convincendo Tarantino a tenere proprio quel ciak nel film. Giusto citare anche un Jamie Foxx ampiamente sottovalutato, che caratterizza il personaggio di Django esattamente come deve e quando deve, facendo giustamente fuoriuscire il suo lato più carismatico solo nella parte finale. Completano il quadro dei protagonisti principali di Django Unchained un irriconoscibile Samuel L. Jackson nei panni dello spregevole capo della servitù Stephen e una dolcissima Kerry Washington, unico personaggio totalmente positivo del film.
Quentin Tarantino non finisce mai di rinnovarsi, declinando la sua proverbiale violenza in un modo del tutto nuovo, caricando le sue classiche scene ai limiti dello splatter con un taglio politico e morale che colpisce ancora più in profondità, e con i suoi irresistibili dialoghi, che gli hanno fatto conquistare un meritatissimo Oscar per la migliore sceneggiatura. La fotografia di Robert Richardson si integra perfettamente con la regia di Tarantino, regalando inquadrature e panoramiche che lasciano a bocca aperta, anche grazie a una colonna sonora ricca di grandi brani di film del passato come (ovviamente) Django, I giorni dell’ira, I crudeli, Gli avvoltoi hanno fame e addirittura Lo chiamavano Trinità, che dimostra la smisurata passione del regista per un genere che l’Italia ha contribuito a rendere grande.
Django Unchained prosegue senza incertezze fra omaggi, citazioni, crescente tensione e improvvisi scoppi di violenza, stregando lo spettatore in ogni inquadratura e avvolgendolo in una storia senza tempo di riscatto e di vendetta. Arriva poi il momento in cui comincia un finale smisuratamente lungo e dilatato nel tempo, che ci fa rendere conto del fatto che questo straordinario cantastorie sta per finire il proprio compito prima di abbandonarci fino al prossimo racconto. Ci troviamo così a essere sempre più emotivamente coinvolti dalla spirale di violenza e riscatto della fase conclusiva del film, ma anche sinceramente tristi per l’approssimarsi di questa conclusione, come quando stiamo passando una splendida serata con una persona cara che non vediamo da tempo e da cui non vorremmo essere costretti a separarci di nuovo. Una fine ovviamente arriva, ed è tanto semplice quanto giusta e coerente con il resto del film. Stavolta Tarantino non dichiara di averci regalato il suo capolavoro, ma ci dà la sensazione di essersi sinceramente divertito a sfornare un film eccessivo, incontenibile e a tratti parodistico, che nel bene e nel male racchiude tutta l’essenza del suo modo di fare cinema e di intendere la vita. Un film che molti adoreranno e che ad alcuni risulterà indigesto, portandoli a critiche spesso superficiali e pretestuose, davanti alle quali siamo certi che il regista direbbe, parafrasando un personaggio del film: Scusate, non ho saputo resistere!