TFF37 – Greener Grass: recensione

Greener Grass è l'ipocrisia americana nascosta sotto strati e strati di illogico nonsense, per una visione impostata sul perturbante e la parodia.

Il paese dove non ci si arrabbia mai. È quello popolato dai personaggi di Greener Grass, sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia, apparecchio luccicante e metallico che spicca fuori da ogni bocca del quartiere e labbro tremate di chi trattiene qualsiasi sentimento di anche minima frustrazione. Emozione indicibile in quell’America colorata in cui sembra che ad ogni famiglia sia stato assegnato il proprio determinato colore, una rabbia mai espressa che va depositando tutta la sua tacita insoddisfazione su quella evidente parte del corpo, che inquietantemente si fa sfondo su cui far passare i titoli di testa dell’assurda commedia di Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe, che oltre registe dell’allarmante quanto pazzo film, ne sono anche sceneggiatrici e interpreti.

Nella bellissima cornice di una scenografia che accentua le tinte e quel senso di perfetta ansia che si poteva odorare anche dei fiori iniziali di Blue Velvet (1986), propagandosi per ambienti e zone comuni, strade e case private, fino all’oggettistica dettagliata e abbinata in qualsiasi aspetto della pellicola, Greener Grass pone un’attenzione sfibrante alla propria estetica in virtù della parodistica visione che il film vuole restituire della borghese classe di cittadini statunitensi. Un’opera in cui ogni quadro famigliare sembra incorniciato da una corona di fiori e sorrisi spontanei, ma in cui è il marcio a nascondersi dietro alla scintillante pulizia e alla comprensione che sembrano tutti quanti provare, mentre tentano vicendevolmente di sostituirsi agli altri e togliere il bello che sentono profondamente di invidiare.

Greener Grass – Quando l’ipocrisia indossa l’apparecchiogreener grass, cinematographe

Una critica che è quanto mai veritiera, vista l’impostazione drammaturgica e consequenziale degli eventi che accadono all’interno di Greener Grass, ma che non si proporrebbe mai come forza promotrice predominante, come punto focale della pellicola, ma piuttosto come elemento posto a sostegno di una narrazione semi-lineare, su cui poter costruire sopra la propria roccaforte barocca. L’assoluta centralità del film della DeBoer e della Luebbe è, infatti, l’oltrepassare lo scibile umano, il concedersi non solo la fantasia, ma l’incontrollabile libertà di un’associazione di fatti e di idee che non si incontrerebbero mai in nessun altro frangente, rivelandosi inadeguate e fuori luogo nel loro abbinarsi e, proprio per questo, ideali per la storia che le autrici vogliono graficamente raccontare.

Così bambini si trasformano in cani, madri cedono le proprie figlie alle loro migliori amiche e queste, a loro volta, partoriscono un pallone da calcio nel giro di pochi giorni, senza destare alcun sospetto. Con una sottotrama, ovviamente, improntata sull’horror e sul provocante. Quella soggezione da perturbante che ti mette in attesa dell’orrore ed è pronta a rilasciare costantemente quel forte, ingestibile disagio, ma che, a differenza del paragone – con le dovutissime distanze – con quel David Lynch già nominato, non sembra mai attendere veramente quel qualcosa di angosciante pronto a fuoriuscire, ma si imposterà sempre a favore della risata, anche per la più improbabile delle idiozie del caso.

Greener Grass – La maschera di un’America invasatagreener grass, cinematographe

Un film con attori che, a dispetto dell’assurdodità della pellicola, si adeguano perfettamente alla prigionia colorata e quasi psicotica di Greener Grass, sfruttando il loro lato comico e atteggiandolo a seconda delle sequenze più o meno esilaranti della storia di sostituzione graduale che va delineandosi attorno al personaggio di Jill. Seppur incredibilmente folle e, proprio per questo, da molti possibilmente apprezzato, l’unica nota nera in questo sgargiante mondo (non) ideale è la poca riuscita su lunga scala del lavoro delle cineaste, che avrebbero forse dovuto rendere la base più solida per il proprio racconto così che potesse mantenere l’interesse costante fino alla fine e non scadere nella sensazione di ripetizione, che è comunque minimale vista la sequela di illogicità che portano quasi ad impazzire.

Con l’irrazionalità che prende sostanza, Greener Grass è la località da visitare per vivere la maschera sociale di un’America che non è poi meno invasata rispetto a quella posta sotto la pazzia di Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe, dove bisogna sempre stamparsi in faccia il proprio miglior sorriso, con annesso apparecchio e falsità.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3