Il migliore: recensione del film con Robert Redford
Il migliore, diretto dal regista di Rain Man Barry Levinson e interpretato da Robert Redford, Kim Basinger e Glenn Close, è disponibile su Netflix.
C’è un legame profondo che unisce il baseball alla cultura americana. Così come per gli europei il calcio è un’ottima rappresentazione dello spirito comunitario, negli Stati Uniti la versatilità del giocatore di baseball è un modo per riprodurre l’individualismo dell’eroe, che consuma la sua impresa in pochi, spettacolari secondi. Per celebrare questa grande metafora, nel 1984 Barry Levinson dirige Il migliore, con protagonista un malinconico Robert Redford.
Il migliore: l’epopea di un uomo solo
Barry Levinson negli anni Ottanta ha diretto, oltre a Il migliore, altri due film piuttosto importanti: dopo il suo esordio con A cena con gli amici del 1982 (con Mickey Rourke e Kevin Bacon) e altri lavori minori, nel 1987 e nel 1988 firma Rain Man e Good Morning, Vietnam. L’esperienza di Levinson con storie agrodolci e con grandi attori è, dunque, più che rodata e trova ne Il migliore un ottimo punto di partenza.
Robert Redford, qui già 48enne, interpreta Roy Hobbs, un campione di baseball dalla vita costantemente sconvolta dai colpi del destino. La sua parabola inizia nelle campagne dell’Illinois, dove si allena immerso in infinite distese di grano. La compagnia e l’incoraggiamento del padre si condensano nel prezioso consiglio iniziale, che lo sprona a non appoggiarsi al proprio talento naturale e a continuare a impegnarsi per migliorare sempre di più. La prerogativa del personaggio è, appunto, la capacità naturale di Hobbs nel gioco del baseball, che giustifica anche il titolo originale del film: The natural.
Persa la guida paterna per la morte prematura del genitore, Hobbs si dirige verso il suo primo provino come giocatore professionista, candidandosi per i Chicago Cubs. La sua dote innata, però, lo mette subito su un piedistallo pericoloso e rimane coinvolto in un torbido suicidio – tentato omicidio, che blocca la sua carriera per 16 anni. Una volta tornato in pista, Hobbs decide di rimettersi in gioco con la squadra di second’ordine dei New York Knights.
Hobbs e le donne
Vessato da un mondo spietato, Hobbs è il classico ragazzo di campagna che risana l’ambiente circostanza con il suo spirito incorruttibile. Il personaggio interpretato da Redford, però, ha un grande tallone d’Achille: affascinante a sua volta, non riesce proprio a resistere all’avvenenza del genere femminile. Tre donne sono centrali nella sua vita: prima di tutte, la sua fidanzata dei tempi giovanili Iris, che qui ha il volto angelico e irregolare di Glenn Close. Grazie a questo personaggio, che ha le linee di dialogo più significative di tutto lo script, Glenn Close è stata anche candidata agli Oscar come Miglior attrice non protagonista.
Incontri tutt’altro che positivi, invece, sono le due altre donne con cui Hobbs ha a che fare. Harriet, dalle fattezze e dalla voce di Barbara Hershey – “una delle più belle attrici americane” – è colei che causerà la rovina del protagonista, pendendo su di lui come un’intrigante spada di Damocle. Memo Paris, la nipote dell’allenatore dei New York Knights e amante fissa di Hobbs è, invece, una giovane e splendida Kim Basinger prima della consacrazione di Nove settimane e 1/2.
A differenza di Iris, talmente innamorata del suo Hobbs da saper rimanere in disparte per 16 lunghi anni, Harriet e Memo usano il loro potere seduttivo per trascinare il protagonista nella disgrazia. Più strumenti di un potere superiore che veri e propri soggetti senzienti, queste bionde terribili sono le classiche femmes fatales del cinema americano noir: bellissime e fragili, avviluppate in una routine di vizi, ambiguità e denaro facile.
Anche in questa dicotomia tra ragazze di città e ragazza di campagna si riconosce un certo intento moralizzatore. L’America più pura, quella che cresce con la schiena dritta tra le bestie e il duro lavoro nei campi, è il baluardo da preservare contro lo sfacelo dei tempi. Persino lo sport, che riproduce e attualizza la mitologia dei grandi eroi dell’antichità, è intaccato dalla corruzione contemporanea, che antepone l’accumulo di denaro e potere alla bellezza del gioco.
Il migliore: un impianto elegante per una storia classica
Tratto dal romanzo di Bernard Malamud (uno degli scrittori americani più importanti degli anni Cinquanta), Il migliore ha un impianto cinematografico piuttosto classico. Il regista Levinson esegue con rigore il compito di rappresentare i valori del libro e della società di cui si fa portavoce, senza darsi troppi pensieri autoriali o su come diluire la retorica dell’eroe.
Proprio per lo stesso scopo, regia e scrittura sono al servizio del divo Redford, che regge tutto il film con una recitazione dimessa e matura. Piuttosto avvincente nelle scene girate in campo, durante le partite, Il migliore valorizza l’espediente metaforico sportivo rendendo interessante il gioco del baseball anche in una prospettiva cinematografica.
Tra gli elementi più autoriali di tutto il film, la splendida fotografia di Caleb Deschanel che immortala le campagne americane con un tocco poetico, separando con grande evidenza i paesaggi positivi familiari a Hobbs dall’aggressività e dallo squallore degli ambienti metropolitani. Il racconto, grazie a questo uso studiato della fotografia, assume toni inequivocabili, riportando – infine – la storia al punto di partenza, quello in cui il protagonista può di nuovo godersi la meritata felicità.
Il migliore è un film perfettamente coerente con lo stile e i temi della cinematografia a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quella meno scanzonata e sperimentale che si impegnava a promuovere i valori più radicati della cultura americana. Solido nella regia e nell’interpretazione, preciso nei tempi e nel ritmo alternato tra scene ad alto tasso di adrenalina e momenti riflessivi, Il migliore rispecchia perfettamente la definizione di “classico”, regalando allo spettatore contemporaneo un’esperienza cinematografica più che soddisfacente.