Claudio Giovannesi si racconta a 360°, oltre Fiore e La paranza dei bambini
Una one to one con il regista romano al 29° Noir in Festival diventa l’occasione per parlare del suo cinema a 360°
Con la sua ultima e pluri-decorata fatica dietro la macchina presa, La paranza dei bambini, Claudio Giovannesi ha firmato un romanzo di deformazione calato in una Napoli dedalica, piena di violenza e dei sottotesti che Roberto Saviano ha inserito nelle pagine del libro omonimo. Il regista romano li ha presi e fatti suoi, dando forma e sostanza narrativa, drammaturgica e visiva a una pellicola nella quale è possibile rintracciare temi e stilemi chiave del suo cinema. Ed è da questo film, già vincitore dell’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2019, che siamo partiti per riassumere ed esplorare il suo modo di vivere e concepire la Settima Arte. Lo abbiamo incontrato e intervistato nel corso della tappa milanese della 29esima edizione del Noir in Festival, laddove la pellicola si è aggiudicata il premio Claudio Caligari.
La nostra intervista a Claudio Giovannesi, regista de La paranza dei bambini, per il quale ha ricevuto il premio Claudio Caligari al 29° Noir in Festival
Come sei riuscito a personalizzare il progetto e a fare tua la storia al centro de La paranza dei bambini?
“Questo è stato un lavoro su commissione, nato dall’incontro con Roberto Saviano e i produttori che mi hanno proposto di realizzare una trasposizione cinematografica del libro omonimo. Ho conosciuto Saviano all’epoca della seconda stagione di Gomorra – La serie, nella quale ho firmato la regia del settimo e ottavo episodio. Ho deciso di accettare nel momento in cui abbiamo trovato una linea comune e un punto di partenza, ossia quella di fare un romanzo di deformazione e un film che parlasse di sentimenti piuttosto che un’interpretazione di Gomorra in versione junior con protagonisti dei minorenni. Altro aspetto importante è stato l’approccio alla materia: ci siamo detti non facciamo una pellicola su dei camorristi, dei mafiosi, su dei criminali o degli spacciatori, ma qualcosa che focalizzasse l’attenzione su degli adolescenti. Quindi abbiamo tolto completamente il giudizio e abbiamo scelto di concentrarci sul punto di vista dei personaggi come se fossero nostri figli, nostri fratelli, nostri familiari, creando così un collegamento empatico. In questo modo abbiamo potuto raccontare cosa accade a un gruppo di adolescenti quando fa una scelta criminale, che è anche incosciente e inconsapevole. Quindi il film si muove tra il gioco e la guerra, tra la dolcezza e la ferocia. Su queste basi abbiamo portato avanti di comune accordo il progetto e sono riuscito a trovare nella matrice letteraria quegli aspetti che mi interessava portare sul grande schermo”.
Fondamentale ai fini della riuscita del film è stata la fase di casting; quali sono stati i parametri che vi hanno guidato nella scelta dei protagonisti?
“Il casting è stata la parte più lunga e difficile di questo lavoro, di quelli che si fanno una volta sola nella vita. È durato circa sei mesi e da Roma mi sono trasferito a Napoli per portarlo avanti. Nel frattempo che cercavamo gli interpreti chiudevamo la sceneggiatura. In più non venivano da noi in qualche ufficio come si è soliti fare in quella fase, ma eravamo noi che li andavamo a cercare e incontrare nei luoghi dove gli adolescenti si riuniscono: dai campetti di calcio ai bar, passando per le piazzette dei quartieri. In totale abbiamo visionato circa 4000 ragazzi. Si tratta di un dato reale, infatti a casa ho più di un hard disk contenente i video dei singoli provini. Una sorta di censimento più che un casting.
La difficoltà era trovare la misura giusta per scegliere i protagonisti, perché usando delle espressioni del co-sceneggiatore Maurizio Braucci noi dovevamo cercare i prossimi e i contigui, cioè quelli che avevano in qualche modo un’esperienza diretta in famiglia o nel quartiere con le storie che sono presenti nel film, ma senza averne fatto parte. Il secondo aspetto riguardava il volto, ossia dovevano essere non respingenti e rappresentare lo specchio dell’innocenza, perché per noi era fondamentale realizzare un’opera che parlasse proprio della perdita dell’innocenza. E infine dovevano avere un’attitudine per la recitazione, che per quanto mi riguarda è la capacità di mostrare la verità dei sentimenti in scena e non ripetere le battute a memoria”.
Il titolo del film è l’esplicitazione di un parallelismo e di una metafora che suona chiaro anche all’orecchio di chi non ne conosce i molteplici significati. Puoi chiarirci questo aspetto?
“Cominciamo con il dire che paranza è un termine intraducibile. Non a caso il distributore internazionale ha scelto un titolo che tra l’altro non amo particolarmente, ossia Piranhas, perché rendere l’esatto significato della parola era di fatto impossibile. In italiano il termine è al contempo un tipo di barca da pesca, un genere molto noto di frittura di pesce, un modo di dire che identifica una comitiva e infine è diventato il nome del gruppo armato della Camorra. Queste quattro cose messe insieme in una parola sola danno origine a quello in linguistica chiamano multisemantico. Poi questo termine a sua volta nasce dal nome dell’inchiesta giudiziaria, ossia dal processo che c’è stato in seguito a un fatto di cronaca realmente accaduto che però noi non abbiamo ricostruito. Piuttosto abbiamo preso spunto dal contesto, perché per quanto ci riguarda La paranza dei bambini non è un film su Napoli, ma ambientato a Napoli e che parla di qualsiasi luogo in cui lo Stato è assente, la formazione scolastica è insufficiente e il lavoro non c’è. Quindi non si tratta di Napoli, ma è lo specchio che riflette la situazione presente in moltissimi luoghi dell’Occidente”.
In che modo La paranza dei bambini riesce – e se ci riesce – ad esorcizzare la violenza?
“La cosa più difficile del film è stata proprio trovare la misura nella sua rappresentazione, perché la violenza al cinema è spesso spettacolo. Quello che volevamo mostrare era la violenza reale subita e messa in atto il più delle volte inconsciamente da un gruppo di adolescenti e non rappresentare la sua spettacolarizzazione.
In tal senso le scene forti nelle pagine del libro sono moltissime, perché c’è la mediazione della parola, mentre nella trasposizione le abbiamo ridotte drasticamente nel numero, puntando solo su quelle veramente utili alle situazioni che abbiamo voluto raccontare”.
C’è secondo te un limite che un regista e il cinema non dovrebbero oltrepassare nel momento in cui la mettono in scena?
“Il limite secondo me è la pornografia, cioè quando la violenza mostrata è solo in funzione dell’effetto che deve suscitare. Un conto è quella alla Tarantino che è puro intrattenimento, con una violenza non violenta poiché talmente finta da risultare fumettistica, oppure c’è quella pornografica che mostrando una cosa in maniera eccessiva mira in maniera disonesta a shoccare il pubblico. Sta lì la soglia che non si dovrebbe oltrepassare o l’approccio che non si dovrebbe sposare quando si portano sullo schermo certe dinamiche”.
Nel momento in cui realizzi opere come La paranza dei bambini o degli episodi di Gomorra – La serie ti poni il problema di una possibile emulazione oppure confidi nell’intelligenza dello spettatore di turno?
“Nello specifico de La paranza dei bambini mostriamo l’esito di un percorso criminale, che non è il frutto della nostra immaginazione. Quello che nella vita vera succede ai tantissimi ragazzi che affrontano esperienze simili a quelle dei protagonisti del film porta loro nella stragrande maggioranza dei casi al cospetto di un bivio: la galera o il cimitero.
La pellicola restituisce tutto questo, ma non per un discorso morale o pedagogico, ma perché non c’è altra soluzione possibile. E questa cosa nel momento in cui lo spettatore la vede e la capisce automaticamente ti allontana da qualsiasi tentazione di emulazione”.
Nei tuoi film la periferia e i luoghi del disagio fanno spesso da cornice. In che modo con il tuo cinema provi a combattere la visione stereotipata che il più delle volte caratterizza tali ambientazioni?
“Sicuramente non considero quelli che ho fatto sino ad oggi come dei film sul disagio, sul sociale e sulla periferia, perché sono termini che tendo a non utilizzare e che per me sono linguisticamente parlando portatori di giudizio. Quello che provo a fare con le persone con le quali collaboro è di non avere un punto di vista distante, cioè di non giudicare i personaggi mettendoli in un contesto e sposandone lo sguardo. Quindi cerco e cerchiamo di assumere il punto di vista di chi abita in quelle zone e vive quelle esistenze. In questo modo faccio venire meno qualsiasi pregiudizio, quindi la parola disagio non la uso perché dall’altra parte significa che io sono nell’agio e loro no. In questo modo cerco di togliere qualsiasi distanza tra me e loro”.
La perdita dell’innocenza e il romanzo di formazione/deformazione sono tematiche centrali nella tua filmografia. Sei tu che le vai a cercare o sono loro che vengono a cercare te nel momento in cui scegli una storia da raccontare?
“Prima le cercavo inconsciamente, da qualche anno a questa parte invece sempre più consciamente. Sono tematiche, quelle che riguardano il coming of age, che riportano alla grande narrazione dei romanzi e il cinema si nutre moltissimo di questo. Quello che fa sì che in qualche modo io le senta vicine è che appartengono al racconto di una fase in cui si deve scegliere tra il bene e il male, ma anche a un momento cruciale nel percorso di crescita prima di tutto morale e non solo nel passaggio all’età adulta.
E tutto quello che fai a che fare con il gioco e l’incoscienza. Questo è anche il motivo per il quale i personaggi dei miei film sono stati in grandissima parte degli adolescenti. Personaggi che per me in maniera poetica sono amorali e anche un po’ anarchici”.
Quanto secondo te il proliferare in Italia e all’estero di film e serie televisive ambientate in contesti criminali e in precise aree geografiche è frutto di una vera esigenza drammaturgica e non della crescente richiesta del mercato audiovisivo?
“Sicuramente ambientare film in situazioni difficili ti permette di avere a che fare con un maggiore conflitto drammaturgico del quale il cibo si nutre per natura. Secondo me però non deve essere qualcosa che si programma a tavolino, ma ci deve essere un’adesione a un certo tipo di personaggi e ai loro percorsi al fine di mostrarne le piccole e grandi battaglie quotidiane. Ed è un discorso valido anche quando vai a raccontare vicende che riguardano l’alta borghesia. È vero che spesso il cinema va a raccontare quello che è lontano dai nostri occhi, perché sono realtà che vengono rimosse. Nel caso dei miei film penso ai giovani della Camorra de La paranza dei bambini, agli adolescenti detenuti nelle carceri minorili di Fiore o quelli di Alì ha gli occhi azzurri.
Sono cose che o si conoscono in maniera diretta perché si ha alle spalle un vissuto che ti permette di farne parte, oppure si tratta di qualcosa della quale si viene a conoscenza attraverso la mediazione della cronaca o dello studio sociologico. Quest’ultimi sono media che ti allontanano da certe situazione, le stesse che il cinema prova invece ad riavvicinarti. Sul versante commerciale è indubbio che il male e in particolare il cosiddetto mafia-movie sia facilmente esportabile all’estero, perché mi duole dirlo rappresenta un vero e proprio brand. Nonostante tutto quello che ho dichiarato e provato a fare, La paranza dei bambini fuori dall’Italia viene comunque etichettato come un teen-mafia-movie, perché c’è sempre questa cattiva abitudine di categorizzare, ma accade quando ormai il film non è più tuo. In generale le pellicole inscrivibili nel suddetto filone hanno sicuramente un grande appeal per il pubblico”.
Quando hai firmato la regia dei due episodi della seconda stagione di Gomorra – La serie ti sei sentito artisticamente ingabbiato o hai potuto godere di una certa libertà di azione? Come ti sei rapportato a quel tipo di lavorazione?
“Lavorare alla serie di Gomorra significa allinearti a un certo modus operandi e stile, poiché fai parte di un’orchestra. Lo spettatore non deve riconoscere l’episodio da me diretto da quello del collega, ma ci deve essere un’omogeneità complessiva con te regista coinvolto che devi mettere al servizio del progetto la tua esperienza. Di conseguenza devi prestare il tuo lavoro a uno stile predefinito e a un linguaggio che è già stato scelto. In tal senso, hai una responsabilità diversa, ossia quella di stare dentro una macchina che funziona indipendentemente dalla tua presenza, e devi eseguire al meglio quello che ti è stato proposto”.
Scorrendo la tua filmografia dai cortometraggi ai documentari sino ai lungometraggi a muovere il tutto c’è sempre una fortissima dose di realismo e verità; è perché l’immaginazione e le altre corde ti spaventano o semplicemente non ti interessano?
“Sicuramente mi emoziona molto di più la realtà, perché ti offre ciò che l’immaginazione non potrà mai restituirti. La forza del dettaglio e la verità di un personaggio te li può dare solo l’incontro con la realtà e la documentazione. Secondo me è amorale fare un film su qualcosa che non conosci, che non hai vissuto direttamente o al quale quantomeno non hai provato ad avvicinarti. I sei mesi di casting per La paranza dei bambini sono serviti anche come percorso di conoscenza di un realtà che ignoravo totalmente. Quindi diventa quasi una necessità, che nel mio caso è diventato anche un metodo”.
Che momento sta attraverso la tua carriera?
“Parlare di carriera nel caso di un regista ma fa sempre un po’ sorridere perché mi vengono alla mente i manager. In genere il percorso dei film è figlio di un flusso, perché il precedente ti porta sempre al successivo, almeno nel mio caso è stato così. Ora è un momento in cui mi sono in parte fermato e in cui sto rifiutando molte cose che mi vengono proposte, per capire quale sia il modo giusto per utilizzare il cinema come una riflessione sul mondo, ma anche come un mezzo di comunicazione di massa. È una cosa importante prendere piena coscienza che esiste un pubblico al quale andare incontro.
Spero che il prossimo film sia incentrato su una storia che riguarda dei maggiorenni e quindi cambiare rotta. Sicuramente quello che voglio provare a fare e che sto cercando di fare è di fare una pellicola che come Fiore sposava un punto di vista femminile. Quello di lavorare su personaggi femminili è qualcosa che desidero moltissimo fare, al di là del plot e dell’ambientazione”.
E invece che momento pensi stia attraversano il cinema italiano?
“Adesso è una fase molto particolare, perché c’è tanto lavoro grazie all’arrivo delle piattaforme come Netflix o Amazon. Ma più che di cinema, al momento l’attenzione di molti addetti ai lavori è rivolto alla scrittura e alla realizzazione di serie televisive. Ed è effettivamente una nuova espressione audiovisiva, anche se la scrittura seriale c’è sempre stata, ma è come il passaggio dal 45 giri al 33 giri che ha cambiato il modo di suonare di tanti musicisti, soprattutto nel jazz. Questo per dire che ci sono maggiori possibilità di confrontarsi con archi narrativi più vasti. Per quanto mi riguarda al momento non sono interessato alla serialità e non ho un progetto che va in quella direzione”.