Just Charlie: recensione del film di Rebekah Fortune
Just Charlie è il racconto di una giovane transgender MtoF che vive nella provincia britannica, tra pregiudizi e le pesanti aspettative paterne
Un racconto sulla disforia di genere e sul difficile processo di costruzione della propria identità da parte di una ragazza nata in un corpo maschile. Just Charlie, di Rebekah Fortune arriva in Italia il 23 gennaio distribuito da Valmyn e Wanted, dopo due anni dalla sua uscita in Inghilterra.
L’accoglienza del lungometraggio di esordio della regista britannica è stata, in patria, piuttosto positiva, segnalando il film e il suo interprete principale Harry Gilby (Charlie, appunto) tra i migliori dell’ultimo anno ai BIFA. Just Charlie tratta una tematica estremamente delicata, con la freschezza e il realismo della migliore cinematografia sociale inglese, poggiandosi su una regia asciutta e su delle interpretazioni intense. Sicuramente un film da vedere e far vedere ai più giovani, che potrebbe aiutare ad abbattere un po’ di pregiudizi e di falsi miti.
Il racconto della disforia di genere in Just Charlie
La transfobia è un fenomeno che ha ucciso negli ultimi anni centinaia e centinaia di persone. Spesso costrette a lavorare come sex worker, proprio perché discriminate sul posto di lavoro, le transgender rischiano ogni giorno di perdere la vita. Anche in casi meno estremi, come è raccontato in Just Charlie, dichiararsi transgender provoca immediatamente reazioni di rifiuto e sospetto. Nel caso in cui c’è stato un contatto fisico, poi, si arriva troppo spesso a vere e proprie violenze, per negare in qualche modo di essere stato attratto da una persona del proprio sesso.
Questa è la punta dell’iceberg di un rifiuto generalizzato che molti transgender devono subire, specialmente nella delicatissima fase di presa di coscienza della propria condizione, quando la confusione e l’isolamento li rende particolarmente vulnerabili. Una fase che Rebekah Fortune racconta molto bene attraverso la storia di Charlie, un calciatore adolescente molto promettente che vive nella provincia britannica, insieme alla sua famiglia e ai suoi compagni di squadra.
Nonostante abbia il biglietto pronto per lasciare quella vita ai confini dell’Impero e per lanciarsi nel calcio professionistico con il Manchester City, Charlie non è felice se non quando – di nascosto da tutti – riesce a indossare degli abiti femminili. La sua identità, infatti, è differente dal modo in cui appare e presto questa divergenza dovrà essere comunicata al resto del mondo. Le reazioni del padre Paul (Scot Wiliams) e della madre Susan (Patricia Potter) saranno molto diverse, acuendo la sofferenza di Charlie con un senso di rifiuto e incomprensione.
Una scrittura delicata al servizio della storia
Quella di Just Charlie è una storia quotidiana, normale, e proprio per questo è importante che la si racconti nella maniera migliore possibile. La regista Rebekah Fortune aveva già studiato la vicenda e le sue dinamiche nel corto Something Blue, in cui una giovanissima transgender MtoF si preparava al matrimonio della sorella. Per il suo lungometraggio di esordio – dopo una ricca carriera teatrale – la Fortune sceglie di ampliare e approfondire il personaggio ritratto nel corto, andando a lavorare con cura sullo script e sulla direzione degli attori.
Il modo di parlare di Charlie e di chi la circonda è sempre molto naturale, frutto di una consapevolezza totale dell’ambiente che si sta andando a raccontare. Il punto di vista della protagonista, anzi, aiuta a comprendere come la disforia di genere sia una fenomeno del tutto intimo e personale per chi lo vive e non frutto di un capriccio o un contesto all’avanguardia. La sofferenza di Charlie, la sua confusione sono sensazioni pure e la protagonista trova con difficoltà le parole per esprimersi. Non per altro, sono quasi tutti gli altri a dover esporre un’opinione strutturata in merito al suo stato, mentre lei reclama semplicemente il diritto ad essere se stessa.
Perché vedere Just Charlie
Just Charlie è un film che affronta con parole semplici un tema estremamente complesso, reso complicato – a dirla tutta – dai pregiudizi e dalla chiusura di chi si reputa “normale”. Il film mostra come la psiche umana trovi strade sempre uniche e differenti per costruire la propria idea di felicità, e che difficilmente ci si può considerare persone realizzate se si subiscono le aspettative altrui. Charlie, e tutte le Charlie del mondo, sono eroi per necessità, persone coraggiose che scelgono di rischiare tutto in nome della propria autodeterminazione.
La reazione dei parenti di Charlie mostra una varietà umana molto interessante: dalla sorella Eve (Elinor Machen-Fortune) che accoglie immediatamente la scelta della protagonista, fino al padre Paul a cui serve decisamente più tempo e più sofferenza per assimilare il colpo e abituarsi alla novità, passando per la madre Susan che accompagna passo dopo passo la figlia in questo doloroso percorso. Di contro, tutta la comunità dei compagni di scuola e di squadra, oltre al mondo degli adulti con cui Charlie ha a che fare ogni giorno, diventa uno spaccato rappresentativo di come la società reagisce in casi come questi. Non basta dover fare i conti con la propria identità, farci pace e accoglierla, ma bisogna anche doversi confrontare con il resto del mondo e con le sue ristrettezze mentali.
Veder crescere Charlie è emozionante. Si partecipa con lei a ogni fase della sua realizzazione e con la sua famiglia all’accettazione e alla protezione di una creatura ancora delicata, che sta in quegli anni trovando il proprio modo di esistere.