La storia della principessa splendente: analisi e significato del film
La storia della principessa splendente è un racconto dalle svariate sfaccettature in cui è impossibile identificare un unico significato.
Con la sua dolcezza, la sua eleganza e la nobiltà del significato di cui si fa portavoce, la cultura giapponese e conseguentemente la sua produzione cinematografica sono accompagnati da sempre da una forte attrattiva, da una forza seduttrice che ipnotizza lo spettatore straniero. Così, come molti altri lungometraggi realizzati dal glorioso Studio Ghibli, La storia della principessa splendente è riuscita a cogliere l’attenzione del pubblico occidentale, entrando immediatamente tra i titoli più conosciuti e amati della produzione dell’Estremo Oriente.
Storia strappalacrime che analizza con maestria il passato della tradizione giapponese, La storia della principessa splendente si è rivelato essere il capitolo finale della cinematografia di Isao Takahata, il fondatore meno noto dello Studio Ghibli e il regista celebre per aver diretto Una tomba per le lucciole, uno dei film d’animazione che hanno trattato le brutalità della guerra con un realismo senza precedenti, un realismo tanto crudo quanto poetico.
Diretto nel 2013 e basato sull’antico racconto popolare Taketori monogatari, conosciuto in Italia con il nome de “Storia di un tagliatore di bambù”, La storia della principessa splendente è una narrazione delicata che cela un significato complesso e a cui si è dedicata troppa poca attenzione.
Le vicende narrate ne La storia della principessa splendente si ispirano ad un antico racconto giapponese
La storia della principessa splendente non è un racconto inedito, ma attinge a piene mani dalla Storia di un tagliatore di bambù (Taketori monogatari, nel suo titolo originale giapponese), una leggenda della tradizione nipponica che, risalente all’ottavo secolo, viene identificata come la prima vera narrazione di finzione mai registrata nella cultura giapponese. In altre parole, quindi, l’ultima storia che Isao Takahata ha scelto di raccontare è la prima storia giapponese mai raccontata: non si tratta forse di un’interessante coincidenza? Il cerchio sembra essersi finalmente completato.
Come è già stato accennato, la Storia di un tagliatore di bambù è una storia arcaica alla quale si accenna nel cosiddetto Manyōshū (la più antica antologia di poesia giapponese, Ndr) e che fa riferimento alle leggendarie peripezie di un uomo che, durante l’ennesima giornata di lavoro e di fatica, trova in un gambo di bambù una piccola bambina, la quale, simile ad una gemma minuscola, si nasconde tra le foglie della pianta. Okina, questo il nome del tagliatore, deciderà di portarla con sé e di accudirla con la moglie Ōna, allevandola come la figlia che avevano sempre desiderato, ma mai avuto. La piccola crescerà velocemente, proprio come la pianta che le aveva dato i natali, e verrà conosciuta tra i contadini del villaggio con il soprannome di Little Bamboo.
Questo, ovviamente, è solo l’inizio della leggenda. Eppure, anche solo dopo aver ascoltato l’ouverture del racconto popolare, si può notare come la narrazione per immagini scelta dal regista sia molto fedele alla fonte originale. Come riadattamento della tradizione nipponica, quindi, La storia della principessa splendente aggiunge più che eliminare: attraverso un rapido confronto tra le due fabule, infatti, si potrà notare come, all’interno delle vicende narrate nel lungometraggio, i dettagli vengano annessi più che essere rimossi.
Tramandati a voce sempre uguali a sé stessi generazione dopo generazione, i racconti popolari sono storie che ci raccontano della vita nella sua interezza. I racconti popolari ci raccontano di noi stessi, dell’umanità. Carichi di un significato universale che supera le barriere che il tempo impone, si auto-contestualizzano e si adattano alle necessità delle società in cui vengono narrati. È proprio per questo, proprio a causa della loro universalità e della loro atemporalità, che i racconti popolari come La storia della principessa splendente riescono a colpire anche le orecchie di una società moderna, di una società del futuro.
L’ultimo lungometraggio di Isao Takahata è un racconto dalle mille sfaccettature: impossibile identificare un solo significato
Risulta terribilmente complicato tentare di circoscrivere il significato sprigionato da La storia della principessa splendente, un racconto dalle svariate sfaccettature in cui è impossibile identificare un messaggio univoco.
Elevandosi ad inno nostalgico di un passato felice impossibile da ricreare, il film di Isao Takahata affronta i più disparati argomenti: le questioni spirituali, la lotta di classe, le restrizioni e gli obblighi imposti alle donne, il contrasto tra la bellezza della natura e la sporcizia della società, la necessità di dire addio, il valore dell’amore e della famiglia, il difficile percorso della crescita. Si potrebbe continuare così per ore, senza mai fermarsi ad elencare l’ennesimo significato, senza mai smettere di allungare quella lungo lista di temi che il lungometraggio tocca e sviluppa con un’eleganza e una maestria che sono propri del cinema orientale.
Come sguardo sulle condizioni degli strati più bassi della società dell’Estremo Oriente, La storia della principessa splendente denuncia l’ingiustificabile divario che separa la povertà dalla ricchezza, circondata da un lusso morboso e da una immoralità dilagante. Con il succedersi delle animazioni, fotografa la situazione tra le classi meno agiate del Giappone, in cui il denaro scarseggia ma l’amore abbonda. Segue (o sarebbe meglio dire accompagna?) un’allegoria sulle responsabilità che provengono dall’avvicinarsi dell’età adulta: la principessa Kaguya fugge dal suo mondo ultra-terrestre, cercando di vivere come una bambina ancora per un po’, cercando di allontanare i drammi quotidiani che la vita ci riserva ancora per un po’, prendendo la decisione infantile di nascondersi nel mondo imperfetto degli umani come un Buddha irrequieto.
Non solo metafora sociale né semplice racconto di formazione. La storia della principessa splendente viene tratteggiata da Isao Takahata come una rappresentazione simbolica dell’ottica orientale sul materialismo, sulla banalità del piacere mondano e sul carattere extraterrestre della vera bellezza. Il racconto delinea, quindi, una parabola educativa che costringe il proprio spettatore a porsi e successivamente a rispondere a molteplici domande. Una parabola educativa che mette in discussione i grandi e nocivi contrasti che la tradizione, a volte, si porta con sé.